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256 le confessioni d’un ottuagenario.

busti, che abbrancassero uno per uno i due frati mano a mano che passavano, e li sbaragliassero e li legassero a dovere. E così si fece. I due uomini furono lo stesso Marchetto, e suo cognato che stava in castello per ortolano. Essi penetrarono pian piano nell’archivio adoperando la chiave del conte, che restava sempre nelle tasche delle sue brache in anticamera; e stettero lì uno a destra ed uno a sinistra del luogo, ove si sentivano sordi sordi i colpi dei due scalpelli. Dopo mezz’ora penetrò nell’archivio un raggio di luce, e i due uomini fermi al loro posto. Per ogni buon conto s’erano armati di mannaje e di pistole, ma speravano di farne senza perchè i signori frati lavoravano sicuri e privi di qualunque timore.

— Io passo col braccio; — mormorò uno di questi.

— Ancora due colpi e il difficile è fatto; — rispose l’altro.

Con poco lavoro s’allargò il buco siffattamente, che vi potea passare con qualche stento una persona; e allora uno dei due frati, quello che sembrava il caporione, allungò la testa, indi un braccio, indi l’altro, e strisciando innanzi colle mani sul pavimento dell’archivio s’ingegnava di tirarsi dietro le gambe. Ma quando meno se lo aspettava sentì una forza amica ajutarlo a ciò, e nel tempo stesso un pugno vigoroso gli afferrò il mento, e sbarrategli le mascelle gli cacciò in bocca un certo arnese, che gli impediva quasi di respirare nonchè di gridare. Una buona attortigliata ai polsi, e una pistola alla gola fornirono l’opera, e persuasero colui a non moversi dal muro contro cui lo avevano addossato. Il frate compagno parve un po’ inquieto del silenzio, che successe al passaggio del suo principale; ma poi si rassicurò credendo che non fiatasse per paura di farsi udire, e fece animo egli pure di sporger la testa dal buco. Costui fu trattato con minor precauzione del primo. Appena impadronitosi della testa Marchetto la tirò