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capitolo quinto. 251

potessero abbisognare qualche rinfresco, fu monsignor Orlando; io penso sempre che lo stomaco più ancora della riconoscenza lo facesse accorto di tale bisogno. Dicono che l’allegria è il più attivo dei succhi gastrici, ma monsignore avea digerito la cena durante la paura; e l’allegria non avea fatto altro che stimolare vieppiù il suo appetito. Due ova e mezza braciuola! Ci voleva altro per farlo tacere l’appetito d’un monsignore!... Subito si misero all’opera; e si fece man bassa sui porcellini di Fulgenzio. Il timore d’un lungo assedio era svanito; la cuoca lavorava per tre; le guattere e i servi avevano quattro braccia per uno; il fuoco sembrava disporsi a cuocere ogni cosa in un minuto; Martino lagrimando per la morte di Germano, comunicatagli allora allora dal cavallante, grattava in tre colpi mezza libbra di formaggio. Io e la Pisana facevamo gazzarra contenti e beati di vederci dimenticati nel tripudio universale; per cui avremmo desiderato ogni mese un assalto al castello per goderne poi un simile carnovale. Ma la memoria del povero Germano s’intrometteva sovente ad abbuiare la mia contentezza. Era la prima volta che la morte mi passava vicino, dopo che era venuto in età di ragione. La Pisana mi svagava col suo chiacchierio, e mi rampognava del mio umore ineguale. Ma io le rispondeva: «E Germano?» — La piccina allungava il broncio; ma poco stante tornava a ciarlare, a dimandarmi contezza delle mie spedizioni notturne, a persuadermi che ella avrebbe fatto anche meglio, e a congratularsi meco che la cuoca si fosse degnata di porre in opera il girarrosto senza ficcar me a far le sue veci. Io mi svagava del mio dolore in questi colloquii; e la superbietta di essere stimato qualche cosa mi teneva troppo occupato di me e della mia importanza per permettermi di pensar troppo al morto.

Era già passata la mezzanotte di qualche mezz’ora,