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capitolo quinto. 239

— Benissimo! credete che quei manigoldi siano passerotti! — gridò il conte. — Staremo freschi a difendercene coi pallini! —

— Via, per cinque o sei ore anche i pallini basteranno, — riprese Lucilio. — E quando loro signori sappiano tenere a freno quegli assassini fino a giorno, io credo che le milizie del vice-capitano avranno campo di intervenire. —

— Fino a giorno! come si fa a difendersi fino a giorno, se quei temerarii si mettono in capo di darci l’assalto? — urlò il conte, strappandosi a ciocche la parrucca. — Ne uccideremo uno, agli altri il sangue andrà alla testa, e saremo tutti fritti prima che il signor vice-capitano pensi a mettersi le ciabatte! —

— Non veda, no, le cose tanto scure; — replicò Lucilio. — Castigatone uno, creda a me che gli altri faranno giudizio. Non ci si perde mai a mostrare i denti; e giacchè il signor capitano Sandracca non sembra del suo umor solito, io solo voglio incaricarmene; e dichiaro e guarentisco che io solo basterò a difendere il castello, e a mettere in scompiglio al menomo atto tutti quei spaccamonti di fuori! —

— Bravo signor Lucilio! Ci salvi lei! Siamo nelle sue mani! — sclamò la contessa.

Infatti il giovane parlava con tal sicurezza, che a tutti si rimise un po’ di fiato in corpo; la vita tornò a muoversi in quelle figure, sbalordite dallo spavento, e la cuoca s’avviò alla credenza con gran conforto di Monsignore. Lucilio si fece raccontar brevemente l’andamento di tutto l’affare; giudicò con miglior fondamento, che fosse una gherminella del castellano di Venchieredo per tagliare a mezzo il processo con un colpo di mano sulla Cancelleria, e per primo atto della sua autorità fece trasportare in un salotto interno le carte e i protocolli di quella faccenda.