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xvi | ippolito nievo. |
200Nessun timor che il suo pudico arcano
Al mondo io sveli. La dimora, il nome,
E ignoro fin l’aspetto suo. — Quel breve
Raggio d’amor, ch’Ei m’additò, simìle
Parvemi al raggio di stella cadente,
205Ch’onde venga e si volga è ignoto, e ognuno
Segue con disïoso occhio quel ratto
Apparire e sparir, poscia rimane
Più mesto che non era...
VIII.
E noi nel mondo
210Dunque mai più nol rivedremo! È triste
Ben triste tal pensier, pur non è il solo
Che per esso m’affanna. Infin che l’aure
Vitali Egli spirava, un mutuo senso
D’intima ritrosia dirgli mi tolse
215Che il forte ingegno suo compresi, come
Forse compreso anco nessun l’avea.
Ma dacchè morte col freddo suggello
Vieta che giunga a quell’amato capo
La voce nostra, quei repressi accenti
220Sì mi pesan sul cor, che alfin prorompe
Fatto più santo sul mio labbro il vero.
Sì! vidi impressa in quella vasta fronte
Del Genio crëator l’orma raggiante.
La vita, ahi! gli fallì, prima che intero
225Altrui si rivelasse, e i mille fiori
Di poesia che rivestîr di gloria
Sì precoce il suo nome, eran promessa
D’innumeri e stupende opre, che il germe
Fecondatore in quella infatigata
230Mente avean posto. Arte e scïenza aperti