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198 | le confessioni d’un ottuagenario. |
— Vedo ch’ella mi ha capito, — tirò innanzi l’altro, — ch’ella è in grado di pesare la forza delle mie ragioni, e che il favore ch’io vengo a chiederle non sembrerà nè strano, nè soverchio. —
Il conte allargò bene gli occhi, e trasse una mano di tasca per mettersela sul cuore.
— Qualche mala lingua, qualche pettegolo sciagurato e bugiardo che io farò punire colle frustate, non la ne dubiti, (proseguì il Venchieredo) mi ha usato la finezza di mettermi in mala vista della Signoria per non so quali freddure di vecchia data che non meritano nemmeno di essere ricordate. Son birberie, sono freddure, tutti lo consentono; ma a Venezia si dovette dar corso all’affare per non far torto al sistema. Ella mi capisce bene; se si trascurassero le denunzie nelle cose frivole, mancherebbero poi nelle grandi, e, adottata una massima, bisogna accettarne tutte le conseguenze. Insomma io lo so di sicuro, che a malincuore si comandò di colassù l’istituzione di quel tal processo... ella intende bene... quel protocollo segreto... a carico di quel mastro Germano...
— Se fosse qui il cancelliere... — mormorò con un raggio di speranza in volto il conte di Fratta.
— No, no; non voglio ora nè pretendo che mi si spiattelli il processo, — riprese il Venchieredo. — Mi basta ricordarglielo, e avergli dimostrato, che non per diffidenza contro di me, nè per l’entità della cosa, ma che per un solo costume di buon governo si venne a quel tal decreto... Già è inutile che mi dilunghi di più. Al fatto anche a Venezia non sarebbero malcontenti di veder troncato l’affare; e così succede sempre che nell’applicazione conviene ammorbidire e correggere ciò che v’ha di troppo ruvido e generale nelle massime di Stato. Ora, signor conte, tocca a noi, tra buoni amici, interpretare le nascoste intenzioni dei serenissimi inquisitori. Lo spirito, ella lo sa meglio di me,