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capitolo quarto. 197

risetto che per la fatica gli cavò dagli occhi due lagrime; sì signore, credo... anzi... ci siamo intesi sempre!

— Ben parlato, giuraddio! — soggiunse l’altro sedendogli allato sopra una poltroncina. — Ci siamo sempre intesi, e c’intenderemo anche questa volta in barba a chiunque. La nobiltà, per quanto diversa di costumi, d’indole e di attinenze, ha pur sempre interessi comuni; e un torto fatto ad uno dei suoi membri ricade sopra tutti. E così è necessario star bene uniti, e darsi mano l’un l’altro, e aiutarsi in quello che si può per mantenere inviolati i nostri privilegi. La giustizia va bene, anzi benissimo... per quelli che ne abbisognano. Io per me trovo che di giustizia ne ho il mio bisogno in casa mia, e chi vuol farmela a mio dispetto mi secca a tutto potere. N’è vero che anche a lei, signor conte, non garba per nulla questa pretesa che hanno taluni di volersi immischiare nei fatti nostri?...

— Eh... anzi... la cosa è chiara, — balbettò il conte, che s’era seduto macchinalmente anche lui, e di tutte quelle parole non altro aveva udito che un suono confuso, e un intronamento, come d’una macina che gli girasse negli orecchi.

— Di più, — continuò il Venchieredo — la giustizia di quei cotali non è sempre nè la più pronta, nè la meglio servita; e chi volesse obbedire puerilmente a lei, potrebbe trovarsi alle prese con chi è di diverso parere, ed ha ai suoi comandi un’altra giustizia ben altrimenti spiccia ed operativa! Queste frasi pronunciate una per una, e sarei per dire sottosegnate dall’accento fermo e riciso del parlatore, scossero profondamente il timpano del conte; e fecero ch’egli alzasse un viso non so se più scandalezzato o impaurito dall’averle comprese. Siccome peraltro il dimostrarsene offeso poteva esporlo a qualche spiacevole schiarimento, così fu abbastanza diplomatico per ricorrere una seconda volta al solito sorriso, che gli ubbidì meno ritroso di prima.