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capitolo quarto. 191

anzi avranno soggezione di lei. — Oh che, le pare, che un prete sia un capo di chiodo?

— Poco più, poco più, figliuola mia, ai tempi che corrono!... ma ci vuol pazienza!...

In quella entrò il sagrestano ad avvertire che tutta la gente aspettava per la messa; e il pover uomo risovvenendosi di aver tardato anche troppo, corse fuori per celebrar le funzioni colla chierica mezzo fatta. — Indarno la Giustina gli tenne dietro col rasoio in mano fino sulla piazza; la chierica irregolare del cappellano e la vista del signore di Venchieredo, aggiungendosi alle vicende del giorno prima, diedero materia ai più strani commenti.

Il giorno dopo capitò al conte di Fratta un gran letterone del signore di Venchieredo, nel quale costui, senza tanti preamboli, pregava il suo illustre collega di dar lo sfratto al cappellano nel più breve spazio di tempo possibile, accusandolo di mille birberie, fra le altre di dar mano a frodare le gabelle della Serenissima, tenendo il sacco ai contrabbandieri più arrisicati della laguna. «E quanto un tal delitto sia inviso all’Eccellentissima Signoria (così diceva la lettera), e quanto grande il merito di coloro che si affrettano a punirlo, e quanto capitale il pericolo degli sconsigliati che per mire private lo lasciano impunito, ella, illustrissimo signor giurisdicente, lo deve sapere al pari di chiunque. Gli statuti e i proclami degli inquisitori parlano chiaro; e ne può andar di mezzo la testa, perchè i denari sono come il sangue dello Stato, ed è reo di Stato colui che colla sua negligenza cospira a dissanguarlo di questo vero fluido vitale.» Come si vede, il castellano avea trovato la vera strada; e infatti il conte di Fratta, al sentirsi leggere dal cancelliere questa antifona, si dimenò tanto sul seggiolone che ne restò un pochino offesa la sua solita maestà. Si vollero tener secrete le pratiche in proposito; ma la chiamata del cappellano, la visita ricevuta da costui la mattina antecedente, il suo