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capitolo quarto. 181

tendevano tanto per dieci miglia all’intorno, che un’occhiata bieca del castellano di Venchieredo equivaleva ad una sentenza di bando almeno per due mesi. Leopardo invece fu guardato, guardò, e proseguì tranquillamente nel suo mestiero. Gaetano non chiedeva di più; e sapeva benissimo che quella tacita sfida avrebbe contato per cento delitti nell’opinione del prepotente castellano. Infatti costui si stizzì assaissimo di veder Leopardo far così basso conto delle sue occhiate; e dopo averlo incontrato due, tre e quattro volte nel cortile del castello, una volta lo fermò colla voce, per dirgli risentitamente che egli si stava troppo in ozio, e che quel tanto passeggiare da Cordovado a Venchieredo potea dargli il mal delle reni. Leopardo s’inchinò, e non comprese, o finse di non comprendere; ma seguitò a passeggiare come prima senza paura di ammalarne. Il signore principiò allora, come si dice, ad averlo proprio sulle corna, e vedendo di non cavarne nulla colle mezze misure, un bel dopopranzo lo fece chiamare a sé, e gli cantò chiaramente, che egli il suo castello non lo teneva per comodo dei signorini di Cordovado, e che se andava in amore, cercasse guarirsene con altre donzelle che con quelle di Venchieredo; se poi volesse arrischiare le spalle a qualche buona untata, capitasse la sera alla solita tresca e sarebbe servito a piacere. Leopardo si inchinò anche allora, e non rispose verbo; ma la sera stessa non mancò di andare dalla Doretta, la quale, bisogna pur dirlo, superba di vederlo sfidare per lei una tanta burrasca, ne lo ricompensò con doppia tenerezza. Gaetano fremeva, il signorotto guardava bieco perfino i suoi cani, e tutto dava indizio che tramassero fra loro qualche brutto tiro. Infatti una bella notte (quella stessa in cui io ricevetti la visita notturna della Pisana, dopo esser tornato a Fratta in groppa al cavallo del barbone sconosciuto), mentre Leopardo si partiva dalla sua bella e scavalcava la siepe del casale per