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capitolo quarto. 163


d’un’ombra così ospitale di ontani e di salici, che è in verità un recesso degno del pennello di Virgilio giusto ove le piacque di porre sua stanza. Sentieruoli nascosti e serpeggianti, sussurrio di rigagnoli, chine dolci e muscose, nulla le manca tutto all’intorno. È proprio lo specchio d’una maga, quell’acqua tersa cilestrina, che zampillando insensibilmente da un fondo di minuta ghiajuolina, s’è alzata a raddoppiar nel suo grembo l’immagine d’una scena così pittoresca e pastorale. Sono luoghi che fanno pensare agli abitatori dell’Eden prima del peccato; ed anche ci fanno pensare senza ribrezzo al peccato, ora che non siamo più abitatori dell’Eden. Colà dunque, intorno a quella fontana, le vaghe fanciulle di Cordovado, di Venchieredo e perfino di Teglio, di Fratta, di Morsano, di Cintello e di Bagnarola, e d’altri villaggi circonvicini, costumano adunarsi da tempo immemorabile le sere festive. E vi stanno a lungo in canti, in risa, in conversari, in merende, finchè la mamma, l’amante e la luna le riconducano a casa. Non ho nemmeno voluto dirvi che colle fanciulle vi concorrono anche i giovinotti, perchè già era cosa da immaginarsi. Ma quello che intendo notare si è, che fatti i conti a fin d’anno, io credo ed affermo che alla fontana di Venchieredo si venga più per far all’amore che per abbeverarsi; e del resto, anche, vi si beve più vino che acqua. Si sa; bisogna in questi casi obbedire più ai salsicciotti ed al presciutto, che alla superstizione dell’acqua passante. Io per me ci fui le belle volte a quella incantevole fontana; ma una volta, una volta sola osai profanare colla mano il vergine cristallo della sua linfa. La caccia mi ci aveva menato, rotto dalla fatica e bruciato di sete; di più la mia fiaschetta del vin bianco non voleva più piangere. Se ci tornassi ora, forse che ne berrei a larghi sorsi come per ringiovanirmi; ma il gusto idropatico della vecchiaia non mi farebbe dimenticare le allegre e turbolente ingollate del buon vino d’una volta.