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122 le confessioni d’un ottuagenario.


ito per le lunghe, il correre mi avrebbe menato più presto che l’andar adagio, ma i conti erano sbagliati, perchè il precipizio della corsa mi faceva trascurare quegli accorgimenti che potevano almeno aiutarmi a non perdere affatto la tramontana. S’aggiungeva che la fatica mi spossava, e che avea d’uopo di tutto lo spavento che mi metteva in corpo il pensiero di non poter arrivare a casa, per persuadere le mie gambe ad andare innanzi. Fortuna volle che volgessi abbastanza diritto per non tornare nelle paludi ove certo mi sarei annegato, e alla fine imboccai una strada. Ma che strada, mio Dio! ora non si adopererebbe questo sostantivo per dinotarla, la si direbbe un ammazzatoio, o peggio. Io ne ringraziai cionnullameno la Provvidenza, e mi diedi a camminare più tranquillo, divisando con bastevole criterio di chieder contezza della via alle prime case. Ma chi doveva essere stato sì gonzo da piantar casa in quelle fondure? Io mi ci fidava e tirava innanzi. Le prime case una volta o l’altra sarebbero venute. Non avea fatto per quella stradaccia un mezzo miglio, che mi sentii venir dietro il galoppo d’un cavallo. Io mi feci il segno della santa croce tirandomi nel fosso più che poteva; ma il passo era strettissimo, e il cavallo aombrando di me diede uno strabalzo in dietro, che fece improvvisare una bella filza di bestemmie al cavaliero che lo montava.

— Chi è là? fammi strada, mascalzone! — gridò colui con una vociaccia ruvida che mi gelò il sangue nelle vene.

— L’abbia misericordia di me! sono un fanciullo smarrito, e non so dove mi vada a finire per questa strada; — ebbi fiato di rispondergli.

La mia voce infantile e supplichevole commosse certamente colui dal cavallo, perchè lo rattenne colle redini, benchè gli avesse già cacciate le gambe nel ventre per passarmi sopra.

— Ah! sei un ragazzo? soggiunse egli curvandosi un