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capitolo terzo. 115

unghie una chiocciola da infilarla in un vimine e appendersela alle orecchie, e se io faceva le viste di volerla aiutare, la mi grugniva contro pestando i piedi, quasi piangendo, e menandomi nello stomaco delle buone gomitate. Pareva ch’io le avessi fatto qualche gran torto; ma tutto era un gioco del suo umore. Volubile come una farfalla che non può resta due minuti sulla corolla d’un fiore, senza batter le ali per succhiarne uno diverso, ella passava d’un tratto dalla domestichezza al sussiego, dalla piú chiassosa garrulità ad un silenzio ostinato, dall’allegria alla stizza e quasi alla crudeltà. La cagione era che in tutte le fasi dell’umore, l’indole non cangiava mai; restava sempre la tirannella di Fratta, capace di render felice un tale per esperimentare la propria potenza in un verso, e di farlo poi piangere ed infuriare per esperimentarla in un altro. Nei temperamenti sensuali e subitanei il capriccio diventa legge e l’egoismo sistema, se non sono sfreddati da una educazione preventiva ed avveduta, che armi la ragione contro il continuo sforzo dei loro eccessi, e munisca la sensibilità con un serraglio di buone abitudini, quasi riparo alle sorprese dell’istinto. Altrimenti per quanto eccellenti qualità s’innestino in nature siffatte, nessuno potrà fidarsene rimanendo tutte schiave della prepotenza sensuale. La Pisana era a quel tempo una fanciulletta; ma che altro sono mai anche le bambine, se non scorci e sbozzi di donne? Dipinti ad olio o in miniatura, i lineamenti d’un ritratto stanno sempre gli stessi.

Peraltro i nuovi orizzonti, che s’aprivano all’anima mia, le porgevano già un ricovero contro la cocciutaggine di quei primi crucci infantili. Mi riposava nel gran seno della natura; e le sue bellezze mi svagavano dalla tetra compagnia della stizza. Quella vastità di campagne dove scorrazzava allora, era ben diversa dallo struggibuco dell’orto e della peschiera, che dai sei agli otto anni m’ave-