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capitolo terzo. 111

-ne Uh! quante ne avrei date a quella sfrontatella per ognuno de’ suoi ghigni! Ma mi toccava invece ingozzare bocconi amari, e girare il mio spiedo, mentre un furore quasi malvagio mi gonfiava il cuore e mi faceva scricchiolare la dentatura. Martino, alle volte, credo che mi avrebbe sollevato, ma prima la cuoca non voleva, e poi il dabbenuomo avea briga bastevole colle croste di formaggio e la grattugia. Invece alla bollitura della minestra mi capitava l’ultimo conforto di Monsignore, il quale, stizzito di vedermi cogli occhi o lagrimosi o addormentati, mi suggeriva con voce melliflua di non far il gonzo o il cattivo, ma di ripetere invece a memoria l’ultima parte del confiteor, finchè me ne capacitassi ben bene. Basta, basta di ciò; solo a pensarvi mi sento colar di dosso tutti i sudori di quegli arrosti, e in quanto a Monsignore lo manderei volentieri dov’è già andato da un pezzo, se non avessi rispetto alla memoria delle sue quondam calze rosse.

Il mondo adunque aveva per me quest’ultimo rilevantissimo vantaggio sulla cucina di Fratta, che non vi era confitto al martirio dello spiedo. Se era solo, saltava, cantava, parlava con me stesso; rideva della consolazione di sentirmi libero, e andava studiando qualche bel garbo sul taglio di quelli della Pisana per farmene poi l’aggraziato dinanzi a lei. Quando poi riusciva a tirare con me per solchi e boschetti questa mia incantatrice, allora mi pareva di essere tutto quello che voleva io, o che ella avrebbe desiderato. Non v’era cosa che non credessi mia e che io non mi tenessi capace di ottenere per contentarla: com’ella era padrona e signora in castello, cosí là nella campagna mi sentiva padrone io; e le ne faceva gli onori come d’un mio feudo. Di tanto in tanto, per rificcarmi ne’ miei stracci, ella diceva con un cipiglietto serio serio: — Questi campi sono miei, e questo prato è mio! — Ma di cotali attucci da feudataria io non prendeva nessuna soggezione;