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110 le confessioni d’un ottuagenario.

conveniente incomodarlo. Ora, quando Sua Eccellenza girarrosto godeva i suoi ozii muti e polverosi, il girarrosto era io. — La cuoca infilava le pollastre nello spiedo, indi passava la punta di questo in un traforo degli alari e ne affidava a me il manico perchè lo girassi con buon metodo e con isocrona costanza fino alla perfetta doratura delle vittime. I figli d’Adamo, forse Adamo stesso aveva fatto così; io, come figlio d’Adamo, non aveva alcun diritto di lamentarmi per questa incombenza che m’era affidata. Ma quante cose non si fanno, non si dicono e non si pensano senza una giusta ponderazione dei propri diritti! — A me talvolta pareva financo, che, poichè c’era un grandissimo girarrosto sul focolare si aveva torto marcio a mutar in un girarrosto me. Non era martirio bastevole pei miei denti che di quel benedetto arrosto dovessi poi rodere e leccare le ossa, senza farmi abbrustolir il viso, voltarlo di qua e di là con una noja senza fine? — Qualche volta mi toccò girare qualche spiedata di uccelletti i quali, nel volgersi a gambe in su, pencolavano ad ogni giro fin quasi sulle bragie, colle loro testoline scorticate e sanguinose. — La mia testa pencolava in cadenza al pencolar delle loro; e credo che vorrei essere stato uno di quei fringuelli, per trar vendetta del mio tormento attraversandomi nella gola di chi avesse dovuto mangiarmi. Quando questi pensierucci tristarelli mi raspavano nel cuore io rideva d’un gusto maligno, e mi metteva a girare lo spiedo più in fretta che mai. Accorreva ciabattando la cuoca, e mi pestava le mani dicendomi. — Adagio, Carlino, gli uccelletti vanno trattati con delicatezza! — Se la stizza e la paura m’avessero permesso di parlare, avrei domandato a quella vecchiaccia unta, perchè anche Carlino non lo trattava almeno come un fringuello? La Pisana, quando mi sapeva in funzione di girarrosto, vinceva la sua ripugnanza per la cucina, e veniva a godere della mia rabbiosa umiliazio-