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264 Capitolo undicesimo.

che con un pugno ioun giorno ho ammazzato un cammello. Mi hai capito?

— Non sono sordo, signor Tabriz, — rispose Karaval con voce tremante.

Una voce in quel momento si alzò fra le erbe!

— L’hai preso? Era Hossein che si avanzava conducendo per la briglia il proprio cavallo, non che i due dei banditi.

— È in mia mano, signore — rispose il gigante — e non mi scapperà più, te l’assicuro. —

Hossein legò i tre cavalli insieme, li fece coricare fra le erbe, poi impugnato il kangiarro si precipitò come una belva addosso a Karaval. Una collera terribile avvampava nei suoi occhi.

— Miserabile! — urlò. — La morte causata da un colpo d’arma bianca sarebbe troppo dolce per te, come sarebbero pure troppo dolci le più atroci torture.

— Grazia, signore, — balbettò Karaval che tremava come se avesse la febbre. — Io non ho agito per mio conto.

— Che cosa vuoi dire? — chiese Hossein stupito.

— Che se fosse stato in me non vi avrei tradito. D’altronde, voi, mi dovreste un po’ di riconoscenza, perchè senza di me, voi non sareste mai usciti vivi dalla steppa della fame.

— Questo briccone è più furbo del diavolo, — mormorò Tabriz.

— Per conto di chi hai agito? — chiese Hossein che aveva alzata la terribile lama sulla testa del bandito. — Del capo delle Aquile?

— No, signore. Dopo che Talmà fu liberata da vostro cugino Abei, io non l’ho più riveduto, quindi egli ignorava che voi foste ancora vivi.

— Di chi dunque? —

Il bandito ebbe una lunga esitazione.

— Parla o ti faccio arrostire a lento fuoco.

— Di vostro cugino.

— D’Abei! — ruggì Hossein.

— Sì, m’aveva preso ai suoi servizi onde tornassi a Kitab a cercare i vostri cadaveri.

— Per quale motivo?

— Per assicurarsi se voi, signore, eravate proprio morto.

— Ah!... Canaglia!... Anche quello voleva!