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262 Capitolo undicesimo.

— Ah!... La cosa sarebbe ben diversa. Ragione di più per diventare prudenti.

— Mettiamo allora i cavalli al trotto.

— E armiamo gli archibugi, padrone. Possiamo essere costretti a rispondere da un momento all’altro. —

Strinsero le briglie e le ginocchia, obbligando i due persiani a moderare il loro slancio impetuoso e si rizzarono sulle staffe per abbracciare maggior orizzonte. Cercavano un punto luminoso che indicasse l’accampamento dei due fuggiaschi.

— Nulla, — continuava a brontolare Tabriz. — È un agguato che ci preparano. Io lo sento o meglio lo fiuto come i lupi che sentono la preda.

Ecco il momento di stare in guardia e di sorprendere invece loro, giacchè il padrone vuole averli in mano vivi. —

Continuarono a galoppare per una quindicina di minuti, poi Tabriz, che precedeva Hossein per difenderlo da qualche improvvisa scarica, rattenne violentemente il proprio cavallo, dicendo rapidamente:

— Alt, padrone!...

— Siamo giunti?

— Inalbera il cavallo! —

Un lampo illuminò la steppa a dieci o dodici passi dinanzi a loro, seguito dal rombo d’un grosso moschetto.

Il cavallo di Tabriz che sotto un vigoroso colpo di tallone si era alzato sulle zampe deretane, cadde di quarto trascinando il cavaliere.

Hossein afferrò uno dei due archibugi che gli pendevano dalla sella e sparò a casaccio a fior di terra.

Un grido echeggiò fra le erbe.

— Karaval!... Son morto!...

— Ed io invece sono vivo, — urlò Tabriz, alzandosi.

Da abilissimo cavaliere, nel momento in cui il suo persiano riceveva la scarica in mezzo al ventre, aveva allargate le gambe e abbandonate le staffe, sicchè era caduto molto più lontano senza rimanere sotto l’animale.

Intanto un uomo si era alzato fra le erbe e si era dato a fuga precipitosa. Era Karaval.

Il bandito non aveva avuto il tempo di montare a cavallo e contando sulla propria agilità e credendo di sfuggire meglio ai