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260 Capitolo undicesimo.

oceano di erbe, quasi sempre in movimento come le onde instabili, quantunque non ne possedesse il muggito sinistro ed impressionante, s’apriva dinanzi a loro.

In mezzo si vedeva netto il solco aperto dai due cavalli montati dal loutis e dal suo compagno, non avendo avuto il tempo, le erbe, calpestate dai robusti zoccoli dei due corridori, di rialzarsi.

Il sole volgeva ormai al tramonto e si tuffava in un nimbo d’oro porpureo, ma la luna non doveva tardare ad alzarsi e piena di splendore.

Sull’immensa pianura non si scorgeva nulla, affatto nulla: nè tende d’Illiati, nè gruppi di cammelli o di cavalli pascolanti, nè i due fuggiaschi. Tuttavia nè Tabriz, nè Hossein disperavano di raggiungere l’uomo che li aveva così vilmente traditi e che per poco non era stata la causa della loro morte o per lo meno della loro prigionìa.

— Prima che raggiungano le rive del mar Nero o le frontiere della Persia, piomberemo loro addosso, — diceva Tabriz. — È impossibile che abbiano potuto trovare cavalli più rapidi dei nostri.

— Dove credi che fuggano?

— Verso la frontiera persiana piuttosto che verso il mar Nero.

— In tal caso saranno costretti a passare per la steppa dei Sarti.

— Certo, padrone.

— Quell’uomo mi occorre, Tabriz. Sarà un testimonio prezioso.

— Che io vorrei uccidere prima di tradurlo dinanzi a tuo zio.

— E avresti torto.

— Può darsi, signore. Eh!...

— Cos’hai!

— Due punti neri all’orizzonte.

— I fuggiaschi?

— Potrebbero essere anche lepri, signore. Il sole sparisce e la luce fugge rapidamente.

Aspettiamo la luna. —

Hossein con una strappata improvvisa arrestò il suo cavallo e guardò attentamente la sterminata pianura, che si estendeva a perdita di vista dinanzi a lui.

— Sì, due punti neri — disse poi. — Lupi no, mi sembrano cavalli.

— Ragione di più per affrettarci, signore. I due cavalli, che valevano i farsistani del vecchio beg, ripartirono ventre a terra, aspirando rumorosamente l’aria.