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256 Capitolo undicesimo.

batteria i due falconetti ancora carichi, in modo che le palle infilassero il sentiero, e uno dopo l’altro, li scaricò!

Il primo colpo portò via la testa al comandante che precedeva la truppa; il secondo mandò a gambe all’aria una mezza dozzina d’usbeki.

Gli altri s’arrestarono un momento, come se indecisi fra il continuare la marcia o darsela a gambe. La morte del loro capo li decise. Volsero le spalle e discesero a corsa sfrenata il sentiero, dirigendosi verso il fiume, dove si trovavano parecchie barche ancorate sulla riva.

Quando Tabriz giunse colle munizioni per le due bocche da fuoco, si erano già imbarcati tutti e aiutati dai pescatori scendevano, arrancando disperatamente l’Amur-Darja.

— Giungi tardi, — gli disse Hossein. — Ormai siamo padroni del villaggio.

— Fuggiti? — chiese il gigante.

— Non si scorgono quasi più.

— Che siano andati in cerca di rinforzi?

— È probabile, Tabriz, e noi non saremo così sciocchi d’aspettarli.

— Lo credo, padrone.

— I cavalli?

— Sono pronti: ho scelto i due migliori.

— I fucili?

— Ne ho appesi due a ciascuna sella. Non vi era da scegliere nel magazzino.

— A cavallo prima che tornino e guadiamo subito il fiume. —

Scesero di corsa lo spalto del ridotto e corsero verso la porta dietro la quale si trovavano i cavalli, i più belli dei quattro, che erano nella scuderia.

Traversarono quella specie di saracinesca gettata su un profondo fossato, balzarono in sella e scesero di galoppo il sentiero.

Il villaggio era stato completamente abbandonato. Usbeki e pescatori, temendo di venire mitragliati dai quattro falconetti, che si trovavano sul ridotto, si erano messi frettolosamente in salvo.

— Se non salviamo la pelle questa volta, non la salveremo più, — disse Tabriz. — Alì e Maometto hanno giurato di proteggerci.