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La sconfitta degli usbeki. 253

Così infatti accadde. Il bukaro uscì dal magazzino, portando due sacchetti che dovevano essere pieni di munizioni e se ne andò come era venuto, senza essersi accorto di nulla.

Quando non udirono più i passi, i due turchestani balzarono in piedi nel medesimo tempo.

— Presto, padrone — disse Tabriz.

Attraversarono rapidamente l’opera coperta e sbucarono finalmente all’aperto, dinanzi alla batteria che era composta di quattro falconetti installati su un terrapieno.

Nessuna sentinella vegliava. A quanto pareva, il capo, sicuro di non venir assalito da nessuno, aveva fatto scendere tutti i suoi uomini per dare l’attacco alla casupola.

Tabriz fece una rapida esplorazione e trovata la porta che, dal sentiero fiancheggiante la collinetta, metteva nel ridotto, la chiuse con fragore, sbarrandola con una grossa trave.

— Ed ora, padrone, rideremo, — disse il gigante.


CAPITOLO XI.


La sconfitta degli usbeki.


Come abbiamo detto, quella specie di fortino, destinato a difendere i guadi dell’Amur-Darja, che si trovavano in quel punto della frontiera, sorgeva su una collinetta non più alta d’un centinaio di metri e che probabilmente era l’unica che sorgesse nella steppa occidentale.

Non era un gran che, tuttavia si componeva d’un gruppetto di fabbricati costruiti con mattoni cotti al sole e uniti con fango, che si stringevano addosso ad un terrapieno munito di merlature e difeso da quattro falconetti con palle da una libbra.

Tabriz e Hossein, appena chiusa la porta, erano saliti sul terrapieno da dove potevano dominare tutto il villaggio e anche un tratto dell’Amur-Darja.

Di lassù scorsero subito la catapecchia del trattore, che si trovava isolata all’estremità meridionale del villaggio.

Fastelli di legna puzzolente bruciavano dinanzi alla porta, mandando in aria grosse nubi di fumo nerastro e, poco distante,