Pagina:Le aquile della steppa.djvu/257


L’assedio. 251

Se il gigante rideva, voleva significare che le cose non andavano così male come credeva Hossein.

Questi senza perdere tempo in chiedere spiegazioni, si era slanciato dietro al fedele servo che si era nel frattempo riempito le tasche di gallette e anche di pesci, poco badando se si ungeva di grasso di cammello.

— Attàccati alla mia zimarra, padrone — gridò Tabriz. — Tu non hai gli occhi dei gatti.

— E dove mi conduci?...

— Non occupartene pel momento. Corri sempre dietro di me, o quel fumo puzzolente ci raggiungerà e cadremo a mezza via. —

Il gigante camminava in fretta, colle braccia allargate, per toccare le due pareti del passaggio e pareva proprio che ci vedesse, perchè non esitava un solo istante a spingersi innanzi.

Hossein invece non riusciva a scorgere assolutamente nulla, non filtrando il menomo raggio di luce in quel corridoio tenebroso.

Dapprima scesero, poi, dopo aver percorso un centinaio di metri, cominciarono a salire, senza però che l’oscurità si dileguasse.

— Ci siamo, — disse ad un tratto il gigante. — Ecco l’aria fresca del colle che giunge.

Ancora quindici o venti passi ed i falconetti lavoreranno.

— I falconetti!... Sei diventato pazzo, Tabriz.

— Oh! Vedrai padrone, come li prenderemo alle spalle! Voglio affogarli tutti nel fiume, compreso il loutis.

Alt!... Ecco la porta! —

Tabriz si era fermato di colpo.

Le sue mani scorsero su una superficie metallica, poi, trovata la maniglia, spinse con forza.

Tosto un fascio di luce illuminò il corridoio.

— Una porta di ferro? chiese Hossein sottovoce.

— Sì mio signore.

— Dove mette?

— Non saresti capace d’indovinarlo.

— Non farmi perdere la pazienza.

— Vieni. —

Attraversarono la porta e si trovarono in una specie di magazzino che era ingombro di casse e di botti e che riceveva la luce da due strette feritoie.

— Dove siamo dunque? — ripetè Hossein, impazientito.