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250 Capitolo decimo.

pareva mettesse in qualche caverna sotterranea o per lo meno in qualche cantina.

— To’! — esclamò.

— Signore, mettiti a guardia della porta: io parto in ispezione.

— Per dove?

— Lo saprai presto.

Il gigante scivolò attraverso l’apertura e scomparve.

Hossein si era subito ricollocato dietro alla tavola che serviva di barricata, senza però riuscire a scorgere nessun usbeko.

Erano occupati gli assedianti a studiare qualche nuovo mezzo per far capitolare gli assediati o, disperando di riuscire nel loro intento, avevano preso il largo sulle loro barche? A dire il vero Hossein non prestava molta fede alla loro scomparsa, essendo in buon numero e potendo reclamare per di più l’aiuto dei pastori, pure loro sudditi dell’Emiro.

Il giovane era a questo punto delle sue riflessioni, quando un getto di fumo irruppe bruscamente attraverso la porta, costringendolo a dare indietro.

Qualcuno doveva aver gettato qualche fastello di legna accesa alla base della parete, coll’evidente intenzione di allontanare i due assediati.

— Altro che scappati! — mormorò Hossein.

Un colpo di tosse gl’impedì di parlare. Un altro getto di fumo era entrato, proveniente dall’altra parete ed era quello così acre, così puzzolente, da obbligare il giovane a fare altri due passi indietro.

— L’alfek! — esclamò. — L’erba puzzolente degli stagni amari!... Ora ci affumicheranno per bene e non so se potremo resistere a lungo.

— Per tutti i diavoli dell’universo! — gridò in quel momento una voce dietro di lui, interrotta da due colpi di tosse. — Giungo in buon punto.

— Tabriz!...

— Eccomi, signore.

— Stanno per prenderci. Il vento soffia dinanzi a noi e fra poco la camera sarà piena.

— Non siamo presi affatto, signore. Seguimi subito, prima che s’accorgano della nostra fuga dobbiamo essere lontani. Ah!... Ah!... Che bel giuoco! —