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238 Capitolo nono.

Si sarebbe detto che un vulcano avvampava sotto il laghetto.

I pescatori fuggivano sempre verso le isole. Avrebbero desiderato meglio guadagnare le rive del fiume; l’onda di fuoco però glielo impediva, e attraversarla sarebbe stato come andare incontro ad una morte certa.

Per fortuna quelle terre che occupavano quasi il centro del laghetto non erano lontane, sicchè bastarono cinque minuti di corsa sfrenata per raggiungere la prima che era la maggiore.

Sbarcarono in fretta, tirarono a terra le barche e si gettarono sotto gli alberi, sdraiandosi fra i giunchi che erano altissimi.

— Bell’avventura! — disse Tabriz che si era gettato fra Hossein e Karaval. — Come finirà?

— Bene, spero, — rispose il bandito. — Aspetteremo che la nafta si sia consumata e andremo a far colazione al villaggio dei pescatori con una dozzina o due di garitse.

— Alla malora i tuoi pesci! — esclamò Tabriz. — Non sogni che quelli e per quelli per poco non ci facevi arrostire vivi!

— Non è colpa mia, signore.

— Se tu fossi stato la cagione, non so se avresti ancora la testa piantata sul tuo collo.

— Non temete, — disse Karaval. — Il fuoco non durerà molto. —

Pareva però che l’incendio, invece di scemare, aumentasse continuamente, come se dai crepacci apertisi nel letto del laghetto, la nafta non cessasse di risalire alla superficie.

Un turbine di fuoco scendeva colla corrente, riversandosi verso il basso corso dell’Amur-Darja e si scorgeva, anche molto lontano, il cielo riflettere quei lividi bagliori. Si sarebbe detto che un lampeggiare continuo riempiva l’atmosfera con una luce però fissa e non già tremolante.

L’acqua continuava a ribollire e un numero infinito di pesci saliva alla superficie, per bene cucinati.

— Peccato non poter mettere una mano lì dentro. Ci guadagneremmo una cena bastante per cinquecento persone, — disse Tabriz.

Hossein non rispose.

Guardava con inquietudine quelle fiammate, che ormai circondavano le isole, facendo crepitare i canneti ed i giunchi che coprivano le rive.