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222 Capitolo settimo.

— A terra! — gridò Karaval con voce tuonante.

In pochi salti raggiunsero la duna più vicina, che formava come un piccolo bastione d’un paio di metri d’altezza, e di qualche centinaia di metri e vi si gettarono dietro stendendosi l’uno accanto all’altro.

Gli onagri, tre o quattrocento per lo meno, caricavano con furia irresistibile, varcando, con agilità stupefacente, le dune di sabbia che trovavano sulla loro corsa.

Precedevano la truppa i maschi, poi venivano i piccini, indi le femmine; però vi era una forte retroguardia formata, a quanto pareva, dagli animali più forti.

Giunti dinanzi alla duna, dietro la quale si tenevano nascosti i tre turchestani, che si erano scavate frettolosamente delle buche, s’arrestarono un momento, poi con un gran salto la varcarono, sollevando una immensa colonna di polvere e continuarono la loro corsa indiavolata.

Il loro slancio era stato tale che nè Hossein, nè Tabriz, nè il bandito erano stati toccati da quei terribili zoccoli.

— Salvi! — gridò il gigante, alzandosi prontamente con una pistola in mano.

Ad un tratto una bestemmia gli sfuggì.

Due masse giallastre avevano varcata la duna, cercando di piombare sulla retroguardia degli onagri.

— Attento, signore! — gridò poscia.

— Che cos’hai, Tabriz? — chiese Hossein allarmato.

— I leoni!...

— I leoni!...

— Fuggite! — gridò il bandito, scalando rapidamente la duna. — Lassù, presto! —

Cinquanta passi più innanzi s’alzava un monticello di sabbia in forma di ridotto, alto una dozzina di metri e Karaval vi si dirigeva a corsa disperata per mettersi in salvo sulla cima.

— Gambe, signore, — disse Tabriz, slanciandosi dietro al bandito.

In un baleno attraversarono la distanza e s’arrampicarono lestamente sull’alta duna, levando dalla cintura i kangiarri.

I due leoni che davano la caccia agli onagri, accortisi un po’ troppo tardi della presenza dei tre uomini, s’erano fermati, come