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L’oasi. | 201 |
randolo, prima che avesse avuto il tempo di puntare la pistola o d’alzare il kangiarro.
— A me, Tabriz! — Aveva urlato il giovane.
— Ah!... Brutta bestia! — urlò.
L’once non era che a tre passi.
Tabriz, con un solo salto, superò la distanza, afferrò la bestia per la coda e la trasse a sè con vigore sovrumano, facendole fare un mezzo giro.
L’once, che forse non s’aspettava quell’attacco brutale, si volse ringhiando e mostrando i denti.
Ma già Tabriz aveva abbandonata la coda per impugnare il kangiarro.
La lama scintillò un momento in aria, poi cadde fischiando.
— Ecco il tuo conto! — urlò Tabriz.
La testa dell’once completamente staccata, cadde a terra.
— Bel colpo! — esclamò Hossein. — Tu taglieresti la testa anche ad un toro.
— Si fa ciò che si può, signore, — rispose il gigante, pulendo la lama sul corpo della belva. — Il braccio è solido; su ciò non ho alcun dubbio.
Presero i due piccoli once e tornarono verso il margine dell’oasi, dove fecero raccolta di rami secchi.
Tabriz, che aveva conservato l’acciarino e l’esca, accese il fuoco, levò la pelle ai due once e, dopo d’averli infilati in un bastone, li mise sui tizzoni ardenti, girandoli di quando in quando, ma anche brontolando:
— Se avessimo almeno una pipa e del buon tomak! Che colazione squisita!... Ah!... già, ci vorrebbe anche una sorsata di kumis, ma dove trovare delle caramelle in questa maledetta steppa? È proprio la steppa della fame! —
Mentre sorvegliava l’arrosto, Hossein, col capo appoggiato al tronco d’un albero, pareva si fosse immerso in profondi pensieri.
Il suo sguardo fissava distrattamente la fiamma che arrostiva i due once. Pensava probabilmente a Talmà e all’infame tradimento di suo cugino.
— Padrone, — disse ad un tratto Tabriz. — Il piatto forte è pronto. Peccato che non ci sia qualche focaccia di maiz e un po’ di tabacco. —