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L’oasi. 199

— Un momento di ritardo e mi tirava giù, — disse Tabriz, che si era messo a cavalcioni del ramo, dietro a Hossein.

— Le accomoderemo ora noi perbene, mio bravo Tabriz. I tuoi stivali sono in buono stato?

— Sono di pelle di cammello e non cedono facilmente.

— Cerchiamo di fare un buon doppio colpo.

— E di non mancarlo soprattutto, signore. Non abbiamo che otto palle fra tutti e due a nostra disposizione e dei cattivi incontri possiamo farne ancora.

Abbiamo commessa una grave imprudenza a non prendere a quei due usbeki le loro munizioni! —

Le due belve, mancato il primo attacco, si erano messe a girare e rigirare intorno alla pianta, senza osare di salire, ciò che sarebbe stato per loro facile, essendo gli once abilissimi arrampicatori.

Erano due bellissime bestie, grosse quanto una pantera nera di Giava, dal pelame pallido, cosparso di grandi macchie nere, un po’ irregolari, e di anelli rotondi un po’ oscuri ed una coda lunga, somigliante a quella delle pantere africane.

Pur girando, non staccavano i loro occhi dai due turchestani, saettando su di loro lampi verdastri e fosforescenti.

— Che siano affamati o irritati perchè abbiamo scoperto il loro covo? — si chiese Hossein.

— Forse l’uno e l’altro, — rispose Tabriz. — Signore, affrettiamoci a sbarazzarci di questi importuni.

— Proviamo queste pistolacce, dunque, benchè non valgano le nostre, — disse Hossein.

— A me il maschio che è il più grosso, e a te la femmina, — aggiunse poi.

S’accomodarono meglio che poterono sul ramo, mirarono attentamente le due bestie che si erano fermate a pochi passi dall’albero, come se studiassero il modo di spingere vigorosamente l’assalto e fecero fuoco quasi contemporaneamente, scaricando due colpi ciascuno.

Quando il fumo si dileguò, videro contorcersi a terra la femmina; il maschio invece, spaventato dalle detonazioni, scappava, spiccando salti di cinque o sei metri.

— Che l’abbia mancato? — si chiese Hossein.

— Cattiva polvere, signore, — rispose Tabriz. — Non so per quale miracolo sia riuscito a me di buttare a terra la femmina.