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La burana. 195

crescere in mezzo a quelle sabbie salate, se non trovano nel sottosuolo un po’ d’umidità.

I due fuggiaschi, animati dalla speranza di tuffare le loro aride labbra in qualche fresca sorgente, non tardarono a raggiungere quella specie d’oasi che sembrava, almeno apparentemente, disabitata.

Fu però una disillusione, poichè quelle foreste non promettevano a prima vista alcun frutto. Non vi erano che dei platani semi-intristiti, degli honna, alberi che danno solo una materia colorante, usata dalle donne turchestane e persiane per tingersi le mani ed i piedi e soprattutto le unghie, delle assa fetida (resina antispasmodica) e degli alberi d’incenso, di nessuna utilità pei due assetati.

— Non siamo fortunati, — disse Tabriz, che si era fermato sul margine dell’oasi. — Qui non troveremo nè un fico, nè un melogranato.

— E nemmeno una goccia d’acqua? — chiese Hossein, con spavento.

— Non abbiamo ancora esplorato queste macchie, signore.

— Impugna le pistole e andiamo avanti. —

Dopo avere tesi gli orecchi, colla speranza di udire il mormorío di qualche ruscelletto, s’inoltrarono cautamente sotto le piante aprendosi il passo fra gruppi di mikanseia levigata, belle piante della famiglia dei baccari, che spuntano anche sui terreni più aridi, e d’astragalli, e guardando attentamente a terra, essendo di solito quelle oasi infestate da certi ragni, grossi come una noce e la cui morsicatura è talvolta mortale.

Avevano attraversati già tre o quattro gruppi di alberi, quando Tabriz si arrestò bruscamente, armando la pistola.

— Cos’hai veduto? — chiese Hossein, imitandolo.

— Mi è sembrato d’aver udito un lieve mugolìo.

— Dove? — chiese Hossein.

— In mezzo a quel gruppo d’astragalli, — rispose Tabriz, indicando una fitta macchia di quelle piante.

— Che vi sia nascosto qualche animale?

— È probabile, signore. Le pantere non mancano nella steppa della fame.

— Buon segno se ne trovassimo una qui.

— Perchè signore?