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192 Capitolo quarto.

a camminare più rapidamente che era possibile, quantunque zoppicasse.

Per una buona ora il gigante resistette energicamente, avanzandosi verso una macchia oscura che la luna illuminava, facendola scintillare in causa dei frammenti di sale che conteneva.

Stava per raggiungerla, quando Hossein riaprì gli occhi scivolandogli quasi subito di fra le braccia.

— Tu mi hai portato? — disse, arrossendo.

— Era necessario, mio signore, — rispose Tabriz.

— Che io sia diventato un fanciullo?

— Non so se un altro meno solido di te avrebbe resistito a quella terribile volata, che ci ha fatto fare quella maledetta tromba. Puoi vantarti di avere le ossa ben dure, signore.

— Quanto sei buono, Tabriz!

— Non ho fatto altro che il dovere di buon servo affezionato, — rispose modestamente il gigante. — Stai meglio ora?

— Sì, ma la sete mi divora sempre.

— Abbi un po’ di pazienza ancora. Vedo delle piante dinanzi a noi e spero di trovare qualche goccia d’acqua o per lo meno delle frutta che ci permettano di dissetarci.

— Sai dove siamo noi?

— È impossibile saperlo.

— Lontani o vicini all’accampamento?

— La nostra volata deve essere stata lunga e la tromba marciava con una velocità prodigiosa.

Riparleremo di ciò più tardi; cerchiamo ora di raggiungere quel gruppo d’alberi. Puoi camminare o vuoi che ti porti ancora? Non pesi molto, per le mie braccia.

— Preferisco servirmi delle mie gambe mio buon Tabriz.

— Avanti allora, mio signore. Non distiamo che mezzo miglio, e forse meno; tieni pronte le armi.

— Che cosa temi?

— Nelle rade oasi della steppa della fame, si rifugiano banditi e belve feroci, e gli uni non sono meno pericolosi delle altre.

— Andiamo, Tabriz. —

Ad occidente si scorgevano gruppi di piante che occupavano una superficie di parecchi ettari e quasi tutte d’alto fusto; era quindi probabile che vi dovesse essere dell’acqua, non potendo i vegetali