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Le spie di Abei. 185

Cammelli e cavalli cominciavano a dar segni d’inquietudine. I primi nitrivano sordamente e tremavano; i secondi allungavano più che potevano il collo e dondolavano nervosamente la testa.

La burana s’avvicinava. Il cielo cominciava ad oscurarsi e folate di vento, vere raffiche, cariche di polvere, giungevano una dietro l’altra, rendendo difficilissima la respirazione, sia agli uomini che agli animali.

Qua e là immense trombe di sabbia si formavano come per incanto, s’alzavano a prodigiosa altezza e si slanciavano a corsa furiosa turbinando su se stesse con mille stridori.

Qualcuna, incontrando sul suo passaggio la carovana, si spezzava bruscamente, rovesciando addosso ai disgraziati prigionieri una tale massa di sabbia da seppellirli fino alle ànche.

Quella corsa, che era diventata sfrenata, durò un quarto d’ora, poi il rappresentante dell’Emiro, che cavalcava in testa a tutti, fece suonare l’alt.

Le colline non erano ancora visibili e la burana stava per spazzarli via.

— Salvatevi come potete! — lo si udì a gridare fra i ruggiti del vento. — Tutti a terra dietro ai cavalli.

— Non dubitare che ci salveremo, — disse Tabriz. — Padrone, sta’ pronto a tutto.

Fra poco saremo avvolti tra le sabbie e più nessuno vedrà il suo vicino.

Non preoccuparti della catena. Al momento opportuno saprò spezzarla.

— Non morremo soffocati, Tabriz? — chiese il giovane, che guardava con un certo timore le colonne di sabbia.

— Confidiamo in Allah, — rispose il gigante. — Stammi ben vicino, e aspettiamo. —