Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
182 | Capitolo terzo. |
— Ecco il paese dannato o meglio maledetto, — disse Tabriz, guardando a Hossein. — Hai mai veduto, mio signore, una steppa più arida di questa? Quale differenza col nostro mare di verzura! Se soffiasse la burana passeremmo indubbiamente un brutto quarto d’ora.
— Che cos’è codesta burana? — chiese Hossein, quasi distrattamente.
— Un terribile uragano di polvere, che qualche volta riesce fatale alle carovane.
— Venga pure: quasi lo desidero. Almeno tutto sarebbe finito, Tabriz! — rispose il povero giovane con voce sorda.
— Ah!.... Signore, tu non devi scoraggiarti; tu devi vivere per la vendetta.
— Ormai non spero più in nulla.
— Hai torto, signore.
— Noi non usciremo vivi dalle mani dell’Emiro.
— Io credo il contrario.
— Chi ci difenderà dalla terribile accusa, ora che non possiamo contare più su nessuno? Mio zio ormai mi crederà morto e non interverrà per aiutarci.
— Pur troppo questo è vero, signore, — disse Tabriz, con un sospiro. — Il tuo miserabile cugino gli avrà dato ad intendere che noi siamo stati uccisi dai russi.
— Ha voluto Talmà e la mia vita! — esclamò Hossein, che ebbe uno scatto di furore. — La mia Talmà!.... Anche quella avrà creduto alla mia morte!
Ah!... L’infame!... Sì, Tabriz, tu hai ragione; bisogna vivere per la vendetta.
Guai a lui il giorno che tornerò nella steppa dei Sarti!
La punizione sarà tremenda!....
— Così ti voglio vedere, signore, — disse il gigante.
— Purchè l’Emiro creda alla nostra lealtà e ci risparmi.
— Eh signore! Non sono ancora ben certo che l’Emiro abbia il piacere di vederci e di far la nostra conoscenza.
Non siamo ancora a Bukara ed in una settimana possono succedere di gran cose, — disse Tabriz, abbassando la voce.
— Che cosa vuoi dire?
— Le catene per un caso qualunque possono spezzarsi, i prigionieri trovarsi liberi, piombare sulla scorta e farla a pezzi.