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12 | Capitolo secondo. |
— A... a... Samar... —
Non finì la frase. Roteò gli occhi all’ingiro, aprì spaventosamente la bocca come per aspirare l’ultima boccata d’aria, poi la testa cadde all’indietro.
L’asfissia lo aveva ucciso.
CAPITOLO II.
La tenda del “beg„.
La luce si era spenta sull’immensa steppa, che si estende sempre piana e coperta di sole erbe e che d’estate il sole bruciante dissecca e che i freddi invernali fanno rivivere rigogliose, dalle rive orientali del mar Caspio a quelle occidentali del mar d’Aral.
La notte non prometteva di essere buona. Era oscurissima, senza luna e senza stelle, essendosi il cielo tutto coperto di vapori e piuttosto fredda, poichè verso l’autunno cominciano già le forti brinate su quelle pianure, che durante l’estate invece pare che avvampino. Un vento tagliente e secco, che soffiava dal Caspio, passava di quando in quando, con mille sussurrii, curvando le alte erbe e facendo oscillare l’alta tenda di Giah Agha, malgrado la grossa pietra che era stata appesa alla cinghia centrale, onde darle maggiore stabilità.
I turcomanni, quei terribili nomadi che hanno dato sovente tanto filo da torcere ai russi, ai persiani, ai belucistani e anche agli afgani, sono già famosi nelle costruzioni delle loro tende, le quali possono benissimo resistere anche ai venti più impetuosi, che si scatenano sovente su quelle lande sterminate.
Dànno ad esse una forma tutta speciale, che non ha nulla di comune con quelle degli arabi e tanto meno coi wigwam delle pelli rosse dell’America del nord.
Sembrano cupole, ma molto alte, e nella loro costruzione non adoperano che pertiche molto elastiche, piantate profondamente nel suolo, curvate in alto e quindi legate saldamente ad un cerchio e coperte di feltro, assai spesso, impenetrabile alla pioggia e di colore per lo più assai oscuro.
Ordinariamente non hanno proporzioni molto vaste. Quella però del vecchio Giah Agha, era invece assai alta, ampia alla base e coperta d’un doppio strato di feltro.