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Il tradimento d’Abei. 169

Spero che tutto finirà bene per voi, miei poveri ragazzi!

— E di che cosa ci si accusa? — disse Hossein. — Di aver cercato di lasciare Kitab prima che venisse presa, non desiderando noi immischiarci negli affari di Diura-beg e di Baba-bey?

— Ah!.... Io non lo so, signor mio. Andiamo: al maggiore non piacciono i ritardi. —

I cosacchi presero in mezzo Tabriz e Hossein e lasciarono la tenda-ospedale, conducendoli in un’altra più piccola, che si trovava in mezzo ad un giardino, all’ombra di un platano gigantesco e dinanzi alla quale vegliava un soldato del 6° battaglione di linea del Turchestan.

Nell’interno non vi erano che due persone sedute dinanzi a un tavolo.

Uno era un maggiore russo, piuttosto attempato, con una barba rossiccia e già brizzolata ed il petto coperto di decorazioni.

L’altro invece era un bukarino, qualche pezzo grosso dell’Emiro, a giudicarlo dall’ampio turbante verde che gli copriva il capo, dai ricami d’oro che ornavano la sua casacca e dalla ricchezza del suo kangiarro e della sua scimitarra.

Il maggiore, che stava fumando un grosso sigaro, vedendo entrare i due prigionieri, fissò i suoi occhi grigiastri e ancora vivissimi su Hossein.

— Tu sei? — gli chiese, dopo alcuni istanti di silenzio.

— Il nipote del beg Giah Aghà, — rispose il giovane.

— Lo conoscete? — chiese il maggiore volgendosi verso il rappresentante dell’Emiro di Bukara.

— Sì, Giah Aghà è uno dei più noti e de’ più ricchi beg della steppa occidentale, — rispose il buccaro. — Ha dato anzi molto filo da torcere al mio signore, alcuni anni sono.

— Un pericoloso allora.

— Lo credo.

— Suo nipote non lo sarà meno dunque.

— Certo.

— Correte, a quanto pare, nel giudicare, — disse Hossein ironicamente.

— Nega di aver combattuto contro di noi, se l’osi, — disse il maggiore. — Sei caduto dinanzi al battaglione che io comandava.

— Non dico il contrario, — rispose Hossein, — ma mi preme dirvi, maggiore, che io non volevo misurarmi coi moscoviti, non