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Il tradimento d’Abei. 167

— Qualche altro tradimento? — si chiese poscia, aggrottando a più riprese la fronte e tirandosi rabbiosamente la barba.

Il dottore li guardò in un certo modo che sembrava dire: vi terrò d’occhio.

— E dunque, Tabriz? — Chiese Hossein vedendo che il gigante rimaneva muto.

— Quando il capitano medico ti ha levata la fascia ti sono cadute delle carte, signore.

— Non è possibile: io non ne avevo in dosso. Vado alla guerra col kangiarro io e non munito di pezzi di carta.

— Sarà come tu dici, mio signore, — disse Tabriz, vedendolo inquietarsi. — Mi sarò ingannato.

Silenzio, signore: ecco il capitano. —

Il capitano era entrato seguito da alcuni infermieri e vedendo Hossein col capo curvo dalla parte di Tabriz, gli aveva subito piantato addosso gli occhi assumendo un’aria poco benigna.

— Come state, giovanotto? — gli chiese poscia, con accento ruvido.

Lo dicevo che non sareste morto.

— Mercè le vostre cure però e la vostra abilità, — rispose cortesemente Hossein. — Mio zio, il beg Giah Aghà, vi sarà riconoscente, signore.

— Chi lo sa! — disse il capitano, con un certo imbarazzo. — Badate che voi ed il vostro compagno siete in istato d’arresto.

— Come prigionieri di guerra?

— Ah!.... Questo non lo so. Silenzio, non parlate troppo.

La vostra febbre non è cessata. Occorre riposo assoluto a bocca chiusa. Poi, volgendosi verso Tabriz, aggiunse:

— Tu fra un paio di giorni potrai alzarti. Hai una fibra meravigliosa, mio caro. —

Poi, senza attendere la risposta del gigante, passò oltre, visitando rapidamente gli altri ammalati.

Era appena uscito quando due cosacchi, armati di fucile, andarono a collocarsi presso i due letti occupati da Hossein e da Tabriz.

— Ecco le nostre guardie, — disse il gigante, che era ridiventato inquietissimo.