Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
158 | Capitolo primo. |
— Che cosa fate voi, canaglie? Siete i corvi della steppa? Giù quel giovane, o Tabriz vi ucciderà!...
— Noi siamo russi e non già ladri, — disse il sergente, snudando la sciabola.
Il gigante era rimasto un momento silenzioso, fissando i suoi occhi ora sulla lanterna ed ora sul giovane, poi un grido lacerò il suo petto.
— Il mio signore!... Morto!...
Morto!... Dannazione d’Allah e del miserabile che l’ha ucciso!..
— Chi, Ercole? — chiese il sergente — e se tu invece t’ingannassi?
— È il mio padrone! — ruggì Tabriz.
— Un principe?
— Il nipote di un beg... di Giah Aghà!...
— Me l’ero immaginato che doveva essere un pezzo grosso, ma rassicurati, Ercole mio, non è ancora spento e forse non se ne andrà nel paradiso di Alì, Hussein, Maometto e compagni.
— Vive?...
— Sembra. —
Tabriz fece un salto innanzi, poi cadde subito sullo stesso cavallo su cui trovavasi Hossein.
— Maledetta palla che quel traditore mi ha cacciato nel dorso — disse, digrignando ferocemente i denti.
— Anche tu ferito?
— Per me non mi preoccupo, — disse Tabriz. — Ci vuol ben altro che una palla.
— Infatti sei più robusto d’un orso.
— Sergente, — disse Olaff, — noi perdiamo tempo in chiacchiere inutili, mentre questo giovane ha bisogno di cure.
— Hai ragione, sono uno stupido. Slacciate una coperta e portiamolo al campo. Penseranno i nostri medici a salvarlo.
Lesti, ragazzi!... Torneremo più tardi. Tu, Ercole, puoi seguirci? Ci vorrebbe un elefante per portare te.
— Salvate lui, il mio padrone, — disse Tabriz, con voce singhiozzante.
— Io vi seguirò egualmente.
È lui che voglio che viva.
— Uhm! — grugnì il cosacco. — Purchè non lo fucilino più tardi, o l’Emiro di Bukara non lo faccia acciecare.