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150 Capitolo diciassettesimo.

morto, perchè i russi non me ne hanno lasciato il tempo. L’ho visto cadere, assieme a Tabriz, colpiti entrambi alle spalle...

— Alle spalle! — esclamò Hadgi, guardando maliziosamente Abei. — Da palle di piombo o da palle rivestite di rame?

— Non occuparti di ciò, — disse Abei, seccato.

— E se fossero stati solamente feriti?

— I russi non ischerzano colle spie: le deportano nelle steppe del Don o le fucilano.

— Non ti comprendo, signore.

— Ho fatto scivolare ieri sera, nella fascia di mio cugino, delle lettere compromettenti. Non sono uno sciocco io.

— Anzi, un uomo meraviglioso, — disse il bandito, con sincera ammirazione.

— Basta, lasciamo i morti e occupiamoci dei vivi. Hai preparato il tuo piano? Ricordati che io devo comparire come un salvatore, o tutto l’edificio che ho innalzato con tanta pazienza e tanta abilità, andrà a catafascio, insieme ai tomani che devo sborsarti.

— Tu hai una scorta, — rispose il bandito, dopo qualche istante di riflessione, — è vero?

— Una quindicina d’uomini.

— Io farò credere a Talmà che devo assentarmi colla maggior parte dei miei banditi per accorrere in aiuto di Kitab e non lascerò che una diecina d’uomini a guardia della caverna.

Questa sera tu darai l’attacco, i miei, alle prime fucilate, scapperanno come lepri, per un passaggio che è noto solo a noi e ti prenderai la fanciulla.

Che cosa vuoi di più semplice?

— Sei furbo.

— I tomani, ora, signore, perchè noi non ci rivedremo forse mai più.

Ritorno nella steppa della fame e non ripasserò, per parecchi anni di certo la frontiera di Bukara... —

Abei si tolse dall’ampia fascia due carte e le consegnò al bandito.

— Una per te, una per la famiglia del mestvire. Presentati a Jurtschi Omar, banchiere a Samarcanda e ti verrà subito versata la somma. Egli è già stato avvertito da parecchie settimane.

— Grazie, mio signore.