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Un supplizio spaventevole. 9

— No, signor Abei.

— Lasciami solo con quest’uomo, Tabriz. Voglio provare io a farlo cantare.

— Guardati, padrone: questo è pericoloso e capace di tutto.

— Ho due kangiarri che tagliano come rasoi, non ho quindi nulla da temere da costui.

Mettiti di guardia fuori dalla porta. Farai presto ad accorrere.

— Sì, padrone, — rispose il gigante alzandosi.

Appena furono soli, il giovane si curvò rapidamente sul prigioniero, dicendogli sottovoce:

— Tu ormai sei perduto e, se anche tutto confessassi, non usciresti egualmente vivo dalle strette del gesso, perchè mio cugino Hossein, fra poco, sarà qui, e quello non ti farà grazia.

— Lo so, signor Albei Dullah, — rispose il prigioniero. — io sono uomo finito ormai.

— Tu hai moglie e figlioli.

— È vero, signore.

— Io m’impegno di far giungere alla tua famiglia duemila tomani se tu manterrai il segreto e non pronuncerai il mio nome. D’altronde nessuno ti crederebbe svelando me.

— Me lo giuri, signore?

— Sul Corano.

— Ora che so che mia moglie ed i miei figli non soffriranno la fame, morrò più tranquillo, — disse il mestvire con rassegnazione, — e sopporterò da ghirghiso gli spasimi delle tremende strette.

— Bada!

— Non temere, signore. —

Abei si rialzò e chiamò Tabriz, il quale fu pronto ad accorrere.

— Quest’uomo non parlerà, — gli disse. — Lo uccideremo inutilmente senza cavargli dalla bocca se ha preso parte al rapimento di Talmà, e senza sapere il luogo ove l’hanno condotta le Aquile. Povero Hossein! Impazzirà dal dolore! —

Grida feroci coprirono le sue ultime parole.

— Il prigioniero! Il prigioniero! —

Una banda d’uomini irruppe nella stanza, armati di kangiarri e di fucili dalla canna lunghissima.

— Tutto è pronto, Tabriz! — gridò uno di loro. — Il beg lo aspetta.