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158 novelle indiane di visnusarma

A me crudel fu addimostrato esempio
Da seguitar per questo generoso
Che mi offerse a cibar le carni sue.
Ma d’oggi in poi queste mie membra tolte
A ogni piacer disseccherò crucciando
Come al cocente està picciolo stagno
D’acque si secca. Sopportando il freddo,
L’ardore, il vento, dimagrato e brutto
Di tabe il corpo, con digiuni assai,
Grande farò di ciò la penitenza. —

Ruppe allora la gabbia e il laccio suo
E la verga e il baston l’uccellatore

E liberò la colombella afflitta.
Ella, sciolta da lui, come veduto
Ebbe il compagno suo cader nel fuoco,
Mesta e con alma di dolor crucciata
Fe’ questo pianto: O signor mio, che farmi
Non so, priva di te, di questa vita!
Donna afflitta e deserta, oh! qual mai frutto
Ila del vivere suo? L’alto pensiero
Di sé stesso, l’orgoglio e l’alterigia,
Fra congiunti, di stirpe, e sopra servi
E famigli il comando, in un baleno
Spariscono al venir di vedovanza! —


Così più volte pïetosamente,
Molto afflitta del cor, si lamentando,

La colombella, a’ maritali voti
Sempre fedele, al divampante fuoco
Entrò nel mezzo. Allora, d’un celeste
Manto vestito e d’ornamenti cinto
Divini, eterni, e stante sopra un carro,
Vide la colombella il suo consorte.
Ei, divenulo ornai corpo divino,
Acconciamente si le disse: O buona,
Da te bene si fe’ che mi seguisti!
Donna che segue il suo consorte, in cielo
Tanto tempo starà quanti son peli
In umana persona, e son tre volte
Dieci milioni e una metà pur anco.

E il cacciator, di giubilo compreso,
Venne a un orrido bosco; abbandonata

De’ viventi la caccia, ei per cotesto
Lungamente si dolse. E là, veggendo
Un incendio di selve, entro con alma
Deliberata andovvi e nell’incendio,
Purificato d’ogni sua sozzura,
Felicità perfetta in ciel raggiunse.
Per aita venuto, e ad un banchetto
Di sue carni imbandito anche invitollo. —


Perciò io dico:


S’ode narrar che a dover pio conforme
Onor fece un colombo al suo nemico,

Per aita venuto, e ad un banchetto
Di sue carni imbandito anche invitollo. —


Avendo udito ciò, Arimardana interrogò Diptacsa: Essendo le cose a questo punto, che pensi tu? — L’altro rispose: O signore, colui non si deve ammazzare, perchè:


Costei che sempre m’abborrisce ed oggi
Così m’abbraccia, se t’aiuta il cielo,

Ch’ella è pur cosa mia,
Dolce benefattor, portami via.


Ma il ladro disse:

Nulla vegg’io che qui rapir sia dato;
Se c’è cosa a rapir tornerò io,
Anche se ben costei non t’ha abbracciato. —


Arimardana domandò: Chi è costei che non abbraccia? e chi è questo ladro? Io desidero udir tutto ciò per disteso. — E Diptacsa incominciò a raccontare:

Racconto. — C’era una volta in un certo paese un mercante vecchio di nome Camatura, dal quale, essendogli morta la prima moglie, preso d’amore, fu sposata, dandole una gran dote, la figlia di un mercante povero. Ma essa, come oppressa da un gran malanno, non poteva nemmeno guardare in viso quel mercante vecchio. Ora è a proposito che: