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libro terzo 157
Fe’ questi detti: Oh! non è donna quella
Di cui non va contento il suo consorte!
Quando contento egli è, tutti gli Dei
Son satisfatti. Entro foresta che arde,
Arda qual pianta che co’ frutti e i rami
Tutta è incesa, ed in cenere ridotta
La donna sia di cui non è contento
Il suo consorte! E dà in misura il padre,
Dà in misura il fratello e dà in misura
Il figlio ancor. Ma a sposo che suoi doni
Senza misura fa, qual donna mai
Onore non faria? —


Poi soggiunse ancora:

Con alma intenta

Odi tu, o caro, ciò che dir ti voglio,
Cosa propria ed onesta. Anche col sangue
Sempre difenderai tal ch’è venuto
Al tuo rifugio. E questo uccellatore
Qui si sta riparato alla tua casa,
Dal freddo oppresso e dalla fame afflitto.
Rendigli adunque tu l’onor che devi.


Ora, s’ode dire come precetto:

Ove qualcun tanto non renda onore
All’ospite che a lui sul vespro giunse,
Quant’è nel suo poter, tutta gli appone
L’opra sua rea quell’ospite e con seco
Tutto si porta il beneficio suo1.
Or tu non aver seco odio o rancura
Così pensando: «Presa fu da lui
La mia diletta!» — , chè per l’opre mie
Son io venuta in questi ceppi e sono
Questi vincoli miei l’opre mie antiche2.


In quanto che:

I mali tutti, i morbi e la miseria,
I ceppi e le sventure è mio a’ mortali
Frutti del germe di lor triste colpe.
Però, lasciando il tuo corruccio, in core
Qual ti nascea per questi ceppi miei,
Posta la mente al dover tuo, costui
Conforme a legge accogli. — Udendo allora
Queste ch’eran conformi al dritto e al
{{indent|0|Voci di lei, di libero volere [giusto
Accostossi il colombo al cacciatore
E così favellò: Tu benvenuto!
Dimmi, o caro, che farti io deggia mai.
Oh! non crucciarti, chè tu se’ davvero
In casa tua. — Come que’ detti intese,
Così all’augel rispose il cacciatore:
O bel colombo, ho freddo. Oh! mi ripara
Da questo verno! — Radunando allora
Certi carboni qua e colà correndo,
Fuoco il colombo fece uscirne e poi
Fiamma fe’ divampar d’aride foglie.
Come l’ebbe così tutto racceso,
A lui si volse che d’alcun riparo
L’avea richiesto: Scàldati le membra
Senza timor sicuramente. Alcuno
Poter non ho per ch’io tua fame acqueti.
Altri a mille, altri a cento ed altri a dieci
L’alimento procaccia; io poverello.
Io misero, con stento mi poss’io
Alimentar. Però di tal che il cibo
Porger non puote a un solo ospite suo,
S’egli abita a un ostel pieno di molti
Danni e sventure, quale il frutto mai?
Questo mio corpo adunque che la vita
Ha grama, offerirò, perch’io più mai,
Un supplicante allor che giunge, in questa
Guisa non debba dir: «Nulla ho con

meco!» —

Così di sè medesmo ei fea lamento,
Non già del cacciator. Ti farò sazio,
Soggiunse poscia. Un solo istante attendi. —
Così dicendo, il pio, con mente lieta,
Nel fuoco si cacciò, v’entrando in mezzo
Come in sua casa, e il cacciator che il vide
Cader nel fuoco, molto impietosito,
Oh! l’uom, gridò che male adopra, amico
Non è di sé davvero! Ei tocca poi,
Egli medesmo, il mal ch’ei stesso fece.
Ed io malvagio, ed io che mi piacea
D’opre crudeli, scenderò d’inferno,
Oh! non è dubbio, al tetro loco. Intanto
  1. Cioè il demerito dell’averlo trattato non come poteva, resta al padrone di casa, e il merito d’aver fatto qualche cosa per lui, resta all’ospite stesso.
  2. In altra vita anteriore.