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156 novelle indiane di visnusarma

bastone? e tu come puoi dimenticare la sventura dolorosa del figlio tuo? — Così dicendo e porgendo al Bramino un monile di perle di gran prezzo e dicendogli di nuovo: D’ora in poi tu non devi più ritornar qui, rientrò nella sua tana, e il Bramino, toltosi quel monile, lagnandosi seco del mal consiglio del figlio suo, ritornò a casa. Perciò io dico:


Vedi il rogo che fiammeggia1,
Ve’ la cresta mia ch’è infranta!


Amicizia che fu rolla,
Per favor più non s’impianta.


Così, se tu con molto accorgimento avrai ucciso colui, il tuo regno resterà libero da ogni impedimento. — Avendo ascoltato cosi il discorso di lui, il re si fece a interrogar Cruracsa: Che pensi tu, amico mio? — E l’altro rispose: O signore, è cosa crudele questa che è stata detta da costui, e la ragione si è che non si deve ammazzare chi si rifugia presso di noi. Anzi, a questo proposito, questo appunto si racconta:


S’ode narrar che a dover pio conforme
Onor fece un colombo al suo nemico

Per aita venuto, e ad una cena
Di sue carni imbandita anche invitollo. —


Arimardana disse: Come ciò? — E Curacsa incominciò a raccontare:

Racconto.

D’anima abietta e pe’ viventi eguale
Al Signor della morte2, orrido e tristo,
Aggirarsi solea per l’ampia selva
Un cacciator d’augelli. Ei non avea
Amico alcuno, non congiunti o soci,
Ma si vivea da tutti abbandonato
Per l’opre sue crudeli.


Perciocchè:

Ognun dovria

Come serpe fuggir lo scellerato
Che dà la morte agli esseri viventi. —
Egli adunque, pigliando una sua gabbia.
Un laccio ed un baston, sempre la selva
D’ogni vivente in danno percorrea;
E un dì, pel bosco andando, ecco in potere
Venirgli una colomba, e quella tosto
Nella gabbia ei cacciò. Le plaghe allora
Tutte del cielo s’oscurâr di dense
Nuvole, e nella selva egli era ancora;
Vento e pioggia sorvenne e l’ora estrema
Quella parea del mondo. Allor, con alma
Turbata di terror, forte tremando,
Cercò rifugio. A un grand’albero venne.
Un istante il guardò come si guarda
In del limpida stella, indi, raggiunto
Come l’ebbe, oh! dicea, chiunque sii
Ch’abiti qui, son io venuto al tuo
Rifugio. Tu però mi sii difesa,
Ch’io son dal freddo assiderato e perdo
I sentimenti per la fame! — Intanto,
Di quell’arbor sui rami, afflitto e mesto
Un colombo che già lunga stagione
Là solea dimorar, dalla compagna
Abbandonato, fea questi lamenti:
Molto il vento e la pioggia, e ancor non
La mia diletta. Ahimè! chè orba di lei [riede
Oggi, è deserta la mia casa! Sposa
Allo sposo fedel, tutta di lui,
Di ciò che piace à lui tutta contenta,
Oh! se alcun uomo ha tal consorte in terra,
Egli è beato! Non han detto i saggi
Esser casa una casa, ma colei
Esser la casa che n’è la signora;
E casa, ove di lei deserta sia,
Vuolsi estimar quale una selva! — Allora
La colombella ch’era nella gabbia,
Come la voce udì del suo compagno,
Già mesta e afflitta, con gioioso core
  1. Il rogo su cui fu arso il figlio morto del Bramino.
  2. Yama, dio della morte.