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libro secondo 105


Racconto. — Hiraniaca disse: Nella regione meridionale è una città di nome Mihilaropia non lontano dalla quale è un romitaggio con un oratorio del beato Siva, laddove abitava un monaco mendicante chiamato Tamraciuda. Il quale, andando per la città a mendicare, come aveva raccolto da mangiare in gran copia, tornato al romitaggio, si manteneva con quello; nascondendo poi nella sporta con cui andava a mendicare, ciò che gli avanzava di quei cibi, e appendendo quella sporta a un dente di elefante1, andava a dormire; alla mattina poi, dispensando quel cibo a certi operai, faceva lor fare nel tempio del dio la pulizia scopando, ungendo e mettendo ogni cosa in ordine. Ma un giorno cosi mi fu parlato dai miei servitori: O signore, nel romitaggio di Tamraciuda c’è sempre molta buona pietanza appesa a un dente d’elefante. Noi non possiamo mangiarne mai; ma per un re nessuna cosa è inaccessibile. A che, intanto, andiam noi correndo qua e là per procacciarci da mangiare? Noi oggi ci vogliam cacciare là dentro e mangiare col tuo favore a tutta nostra voglia. A che tanto inutile affaticarci? — Avendo udito cotesto, io, attorniato da tutta quanta la mia gente, là mi condussi nel momento stesso, dove con un salto mi cacciai dentro alla sporta delle elemosine, e dove, dopo aver dato da mangiare ai miei servitori gli avanzi di certe pietanze cotte, io stesso mi posi a mangiare. Come poi tutti fummo saziati, ritornammo alle nostre case. D’allora in poi sempre io, col mio sèguito, mi stava a mangiare di quei cibi, e il monaco per (pianto poteva stava a far la’ guardia; ma io, quand’egli s’addormentava, arrampicatomi fin lassù, faceva le faccende mie, perchè egli allora, ponendo gran cura nel difendersi da me, portò un giorno un lungo pezzo di canna, con la quale, benchè coricato, per timor di me, andava picchiando sulla sporta. Allora io, senza aver potuto toccar di quelle pietanze, per timore d’esser battuto mi tirava indietro. Così, essendo io occupato nella guerra con lui per tutta la notte, il tempo andava. Ma poi, un giorno, capitò in quel romitaggio un amico di Tamraciuda, già suo ospite, Vrihatsfigi di nome, che viaggiava in pellegrinaggio per visitare certi stagni sacri2. Come l’ebbe veduto, Tamraciuda si conformò a tutte le regole dell’accogliere ospiti col levarsi in piedi e con l’accoglierlo a tutto onore. La sera poi si adagiarono insieme sopra un solo giaciglio e cominciarono a discorrere dei doveri morali. Ma, intanto che Vrihatsfigi era in bei discorsi socievoli, Tamraciuda, distratto della mente per timor di me, mentre con quel pezzo di canna picchiava sulla sporta delle elemosine, tralasciava di dar risposta all’amico, anzi non gli volgeva nemmeno un motto, perchè l’ospite, venuto in gran disdegno, gli disse: O Tamraciuda, ornai io ho conosciuto che non sei mio amico da che non mi parli con affabilità. Ora io, benchè sia di notte, lascierò il tuo romitaggio e me ne andrò altrove. Perchè è stato detto:

  1. Dente d’elefante conficcato nel muro che faceva da chiodo o da cavicchio.
  2. Costume indiano di andare a certi laghi o stagni sacri per fare abluzioni e preghiere.