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PREFAZIONE XIII


Ma c’è di più.            I biografi di Jacopone che hanno seguìto cecamente la tradizione senza curarsi di separare i fatti positivi da tutti i particolari fantastici formatisi per false interpretazioni dei passi autobiografici e per analogìa di altre leggende francescane, affermano concordi che l’amor Dei usque ad contemptum sui fu così ardentemente sentito dal poeta tudertino, da indurlo a commettere insieme con molte altre pazzìe anche quella di affettare il più profondo disprezzo per la propria coltura e dottrina; donde la eccessiva volgarità del suo eloquio, il solo da lui reputato degno di esprimere sensi di cristiana umiltà.            Ora non è chi non veda il ridicolo di tale affermazione.            Jacopone da Todi aveva fatto i suoi studj di diritto, forse a Bologna; aveva esercitato per lunghi anni la professione d’avvocato nella città natìa; aveva fors’anco dettato componimenti in rima prima di darsi a vita spirituale ed è lecito supporre che non gli fosse ignota la bella fioritura della poesìa lirica del suo tempo, i cui spunti e le cui immagini sin troppo profane ricorrono con molta insistenza nelle sue laudi-ballate.            Per quanto profondo fosse l’orrore e il disprezzo degli anni trascorsi nelle vanità del mondo, come avrebbe egli potuto far getto della propria coltura, di quel patrimonio intellettuale, caro sopra ogni altro perché frutto in ciascuno di inenarrabili fatiche, senza sentirsi miseramente inaridire quella ricca vena poetica onde, come altrettanti ruscelli, scaturivano i suoi sacri ritmi, schiumeggianti e torbidi talvolta per l’impeto della discesa, ma sempre meravigliosi di vita e di freschezza?            Jacopone parlava e componeva nel suo nativo dialetto così come solevano le persone della sua coltura. E non sarebbe giusto rifiutare inesorabilmente come alterazioni illegittime di amanuensi e di editori tutto ciò (e non è gran cosa) che nel testo dell’edizione