Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
lvi |
9 Scrisse il Boccaccio nel Commento alla Divina Comedia: «Questo ser Brunetto Latino fu fiorentino, e fu assai valente uomo in alcune delle liberali arti, ed in filosofia; ma la sua principal arte fu notaria, nella quale fu valente molto: e fece di sè, e di questa sua facoltà sì grande stima, che avendo in un contratto fatto per lui, errato, e per quello essendo stato accusato di falsità, volle avanti esser condannato per falsario, ch’egli volesse confessare di avere errato, e poi per isdegno partitosi di Firenze, e quivi lasciato per memoria di se un libro da lui composto, chiamato il Tesoretto, se ne andò a Parigi, e quivi dimorò lungamente.» La novella fu ripetuta da Benvenuto da Imola, e da altri commentatori di Dante, fra’ quali anche il Landino. Nessuno meglio del contemporaneo Malespini, e dello stesso Brunetto, poteva sapere la vera cagione del suo esiglio. «Io non mi persuaderò così facilmente, conchiude Girolamo Tiraboschi, che Brunetto volesse piuttosto incorrere l’infamia ad un falsario inflitta, che quella tanto più lieve, che nasce da un involontario fatto. (Storia della Lett. Ital. lib. III, cap. 5.)» Vedi anche Giovanni Villani, lib. VI, 75, 81, e lib. VIII. cap. 10. Filippo Villani, Vita di Brunetto, con note del Mazzuchelli. Alla nota 123 si legge un documento sincrono di Lupo da Castiglionchio il vecchio.
«Non sappiamo se Brunetto, fornita l’ambascieria, tornasse in Firenze, e di qui poi si trasferisse in Francia: ovvero se, partito dalla patria nel 1260, qui non tornasse che dopo aver dimorato appresso