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re. Così io ora; o valorosissimo Signore, a tuoi piedi son venuto, inchinevolmente supplicandoti a non volermi senza giusta cagione uccidere, che s’io non feci mai cosa mala, nè posso, nè voglio altrui offendere, giusta cosa e, ch’io anco non sia offeso. Ed alla tua sapientissima giustizia appartiene, non sopportare, che mal portamento mi sia fatto, però essendo tu d’ammo generoso, e magananimo, spero da fe riportar cortesia, e favore, e non ingiuria, violenza, o danno: e quantunque inetto, e disgraziato mi vedi, nondimeno in questo contrafatto corpicciuolo, regna buona, leale, e sincera mente, donde procedono le parole mie, ed i miei consigli utili, veraci, e salutiferi, e la vita mia vieppiù, che la morte (avvenga, che tu sii gran Re, e potentissimo) può non mediocremente giovarti, e recarti profitto, conciosia, che i gran Signori più di buoni, e saggi, e fedeli consigli, che di tesoro, e d’armi hanno mestieri, il che la stessa esperienza te lo può dimostrare.


C A P I T O L O   LIII.

IL Re allora non poca ammirazione prese dal suo vero, prudente, ed ingegnoso favellare, e più tanto maravigliavasi, quanto, che fuori d’ogni suo pensiero, sentiva quel così fatto uomo sì bene, sì attentamente e sì arditamente dire la ragion sua, perchè venutogli insieme di lui compassione, rispose di questa sentenza. L’intenzion mia non era, o Esopo, di lasciarti in libertà vivere, ma il tuo fatal destino, e li Dei, che mi ti affezionano, e muovono ad amarti, m’inducono, e sforzano a donarti non solamente la vita, ma ancora ad onorarti come amico. Chiedi adun-