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DUODECIMO | 219 |
LV.
Colle ginocchia e colle mani in terra
Lemizzon cade, e fa cader con esso
Le brache di Sprangon, ch’a sorte afferra
444Col raffio ch’abbassò nel tempo stesso.
Ma dalla ronca a quel colpir si sferra
Lo scudo del carton, spezzato e fesso:
Onde l’ardito Lemizzon che vede
448Il rischio, salta in un momento in piede,
LVI.
E Sprangon ch’a sbrigar le gambe attende,
Urta per fianco, e giù dall’orlo il getta.
Sprangon, cadendo, in una mano il prende,
452E ’l rapisce con lui per sua vendetta.
Ravviluppato l’un coll’altro scende;
Ma nel cader si distaccaro in fretta.
Batton sull’onda, e vanno al fondo insieme:
456L’acqua rimbalza, e ’l lido intorno freme.
LVII.
Lemizzon ch’è più sciolto e più spedito,
Soffia le spume, e ’l volto alza dall’onda;
E poi ch’ha scorto ov’è sicuro il lito,
460Passa, notando, in sull’amica sponda.
Ma dalle brache sue l’altro impedito
E dall’armi, restò nella profonda
Voragine affogato; e quivi giacque
464Cibo de’ pesci, e impedimento all’acque.
LVIII.
Ramiro Zabarella, un cavaliero
Il più gentil che fosse ai giorni sui,
Ma disdegnoso e furibondo e fiero
468Con chi volea pigliar gara con lui,
Comparve armato sopra un gran destriero,
Dopo che Lemizzon chiarì colui;
E disse: O Bolognesi, oggi la vostra
472Disfida feste, e noi farem la nostra.