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204 | CANTO |
LIX.
Titta ricominciò: Becco, poltrone,
T’insegnerò ben io; vien’ fora, vi ni.
Più non rispose il Conte a quel sermone,
476Ma destò anch’egli alfine i suoi veleni,
E scoccò la balestra, e d’un balzone
Il colse appunto al sommo delle reni
Sì fieramente, che lo stese in terra;
480E saltò fuori a discoperta guerra,
LX.
Gridando: Per la gola te ne menti,
Romaneschetto, furbacciotto, spia.
Titta aveva offuscati i sentimenti,
484E a gran fatica il suo parlar sentia.
Ma saltaron color ch’eran presenti,
Subito in mezzo, e ognun gli dipartia:
E condussero Titta al padiglione
488Dilombato, e che gía quasi carpone.
LXI.
Quivi dal Toscanella ei fu burlato,
Che dovendo levare al ciel le mani
D’aver l’emulo suo vituperato,
492Fosse entrato in umor bizzarri e strani
Di volerlo ancor morto; e stuzzicato
Sì l’avesse con atti e detti insani,
Che d’una rana imbelle e senza morso,
496L’avesse alfin mutato in tigre, in orso.
LXII.
Se tu disprezzi la vittoria, disse,
Che puoi tu dir s’ella da te s’invola?
Chi va cercando e suscitando risse,
500Non sa che la Fortuna è donna e vola.
Tenea Titta le luci in terra fisse,
Mesto ed immoto, e non facea parola.
Ma tempo è omai di richiamar gli accenti
504Ai fatti degli eserciti possenti.