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UNDECIMO 203


LV.


S’armò d’un giacco, e colla spada allato
     L’andò subitamente a ritrovare.
     Il Conte a Sant’Ambrogio era passato,
     444E stava con que’ preti a ragionare.
     Titta gli fece dir per un soldato,
     Ch’uscisse fuor, che gli volea parlare.
     Il Conte caricò la sua balestra,
     448E s’affacciò disopra a una finestra;

LVI.


E a Titta domandò quel che chiedea:
     Ed ei rispose che venisse giuso.
     Il Conte si scusò che non potea;
     452E vedendo che l’uscio era ben chiuso,
     Disse che se trattar seco volea,
     Trattasse quivi, o ch’egli andasse suso.
     Titta allor furìando si scoperse,
     456E l’oltraggiò con villanie diverse.

LVII.


Ma il Conte rispondea con lieta cera:
     Voi siete un uom di pessima natura,
     A tener l’ira una giornata intiera:
     460Io deposi la mia coll’armatura.
     Non occorre a far qui l’anima fiera
     Con spampanate, per mostrar bravura:
     Io v’ho reso buon conto in campo armato,
     464E son stato con voi nello steccato.

LVIII.


Quand’anch’io irato fui coll’armi in mano,
     Voi dovevate allor sfogarvi affatto:
     Or, Titta mio, voi v’affannate invano;
     468Ch’io non ho tolto a sbizzarrire un matto.
     Andate; e come avete il cervel sano,
     Tornate, e so che mi farete patto.
     Io non ho da partir nulla con voi:
     472Però dormite, e riparliamci poi.