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II.
La luna era comparsa fra i due più alti picchi della grande catena di montagne, lasciando cadere dolcemente sulla prateria addormentata i suoi raggi azzurrini.
Fra le alte erbe i grilli cantavano e fischiavano, essendovene in America anche di quelli che zuffolano come le vaporiere, ed in lontananza echeggiava, ad intervalli, l’urlo lugubre, tristissimo, di una coyote in cerca d’una cena non ancora trovata. I tre scorridori di prateria, dopo essere rimasti qualche minuto in ascolto e aver fiutata l’aria a più riprese, scuotendo il capo come persone che dubitano d’un qualche grosso pericolo, erano balzati lestamente in sella.
L’inglese, vedendo che stavano per andarsene senza più curarsi nè di lui, nè dei bisonti, dopo una breve esitazione e tre o quattro imprecazioni, aveva creduto bene d’imitarli poichè, dopo tutto, teneva più alla sua capigliatura che alla guarigione del suo spleen.
John si era messo alla testa del piccolo drappello, tenendo il rifle dinanzi alla sella per essere più pronto a servirsene.
Se Bud Turner non era caduto nelle mani degli Sioux, ciò che era difficile ammettere, essendo l’uomo più scaltro, più temuto e più svelto di tutti gli scorridori della prateria, in qualche luogo si doveva trovare: tale almeno era la convinzione dell’indian-agent e dei suoi compagni.
Doveva essersi appiattato in mezzo alle alte erbe per aspettare che gl’indiani si fossero allontanati.
— Un furbo come quello non si può prendere — mormorava John, eccitando il suo cavallone. — È sfuggito mille volte alla morte e credo che sarà sfuggito anche questa volta alle grinfe di quella triste megera. Cerchiamo... cerchiamo.
Galoppavano da cinque o sei minuti, quasi soffocati fra le altissime graminacee che sorpassavano le selle dei cavalli, quando l’indian-agent si volse bruscamente verso Harry che gli veniva subito dietro, dicendo:
— I bisonti ci stanno dinanzi.
— In marcia? — chiese lo scorridore.
— Sì, sfilano all’orizzonte al trotto.