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XVI.


Gli orrori d’una prigione.


Rimessisi in piedi, Turner, John e Giorgio, approfittando di quel po’ di luce che ancora rimaneva e che non doveva tardare a spegnersi per ripiombarli in una spaventevole oscurità, si erano precipitati verso i grossi involti, strappando rabbiosamente gli stracci e le pelli che li avvolgevano.

Ogni involto conteneva un indiano, già in avanzata putrefazione, colla testa forata da una palla. Attraverso i buchi già dei vermi cominciavano a brulicare divorando i cervelli.

— Sono gli uomini che noi abbiamo uccisi intorno al big-tree — disse Turner, retrocedendo inorridito. — Noi colpiamo sempre alla testa.

— Che spaventevole supplizio ha inventato quella donna!... — gridò John, cacciandosi disperatamente le mani nei capelli. — È orribile!... È orribile!...

Harry e Giorgio pareva che avessero perduta la parola. Guardavano cogli occhi sbarrati, sconvolti, tutti quei cadaveri insieme ai quali dovevano pur essi morire, a meno d’un miracolo che pel momento non si presentava di certo.

— John — disse Turner, dopo un silenzio abbastanza lungo. — Approfittiamo di questa poca luce che ancora ci rimane per tentare... che cosa? Non lo so nemmeno io.

— Fra un quarto d’ora le tenebre ripiomberanno su di noi — rispose l’indian-agent, facendo un gesto di scoraggiamento.

— Rechiamoci verso l’entrata della caverna. Chi sa!...

— Uhm!... Magre speranze. Sarebbe stato meglio che gl’indiani ci avessero accoppati a colpi di tomahawak.

«Ci hanno risparmiato il palo della tortura per dannarci ad una morte cento volte più spaventosa.

— Preferisco essere ancora vivo, John. A morire c’è sempre tempo.

«Venite, amici.

Prese il pezzo di torcia, lungo appena dieci centimetri e tornò rapidamente indietro rifacendo la via percorsa dagl’indiani.

La galleria che sboccava nella caverna circolare era lunga sette od otto metri ed abbastanza larga per permettere il passaggio a due uomini di fronte.