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106 | emilio salgari |
si accomodarono alla meglio coll’intenzione di fare anch’essi una buona dormita.
Agl’indiani non pensavano quasi più. Forse il solo John, la cui capigliatura era minacciata più di quelle dei suoi compagni, si ricordava un po’ vagamente di aver Minnehaha, la sanguinaria Scotennatrice, alle calcagna.
La notte trascorse senza allarmi, cosicchè i quattro avventurieri poterono riposarsi completamente dopo tante fatiche sopportate.
L’orso grigio probabilmente aveva dormito non meno bene di loro, poichè quando ai primi albori Turner sollevò cautamente la botola, lo vide ancora sdraiato in mezzo agli ossami ripiegato su se stesso e colla testa nascosta fra le zampe anteriori.
— Ecco un guardiano assai poltrone che non prenderei ai miei servigi nemmeno per due dollari al mese — disse. — Buon segno però se russa ancora; ciò vuol dire che gl’indiani non hanno ancora scoperte le nostre tracce.
Stava per svegliare i compagni, i quali russavano anch’essi non meno placidamente del vecchio Jonathan, quando uno sparo rimbombò propagandosi sotto la foresta e ripercuotendosi entro il rifugio.
— Satanasso!... — esclamò. — Mi rallegravo troppo presto!...
XI.
Assedio nel «big-tree».
Udendo quel colpo di fuoco che non poteva essere stato sparato che dagli Sioux di Minnehaha, l’indian-agent ed i due scorridori di prateria avevano gettato in aria le loro coperte ed erano saltati in piedi coi rifles in mano.
— Gl’indiani? — avevano chiesto ad una voce a Turner, il quale stava spiando da una feritoia.
— Non sarà stato certamente il grizzly a sparare — aveva subito risposto il campione degli uccisori d’uomini, colla sua solita calma.
— Li vedete? — chiese John.
— Non ancora.
— Eppure non devono essere lontani. Questo colpo di fuoco deve essere stato sparato al di qua del cañon che noi abbiamo attraversato.
— È possibile, John.