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dendosi, dal fuoco che cominciava ad ardere e crepitare nelle spianate.

I cavalli dei Dalvy s’urtavano, scalpitavano, facendo un gran chiasso entro la loggia.

— Sarebbe bene abbeverarli e poi sfamarli — disse il custode.

— E se li rubano?

— Macchè!

Ghisparru andò verso la loggia, e cercò d’acquietar le bestie; ma queste facevano peggio, sferrando calci al muro ed al suolo.

Allora il servo si recò dai padroni, che cenavano presso il cappellano. La cena era al termine: alla mensa sedevano solo gli uomini e dama Lillica, e le donne servivano. Erano quasi tutti ubbriachi, coi volti accesi, gli occhi e i denti scintillanti.

Giame chiedeva notizie sulla fondazione e gli usi della festa, e tutti gli rispondevano, per lo più con spropositi che lo facevano sorridere.

Vedendo Ghisparru si alzò con premura, e gli venne incontro.

— Cosa c’è? — chiese passandosi il tovagliolo sulla bocca.

— I cavalli s’urtano e si danno calci. Sarebbe bene sfunarli al pascolo.

— Come vuoi. Però sarebbe anche bene che tu, allora, dormissi fuori per guardarli.