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Nel primo caso egli vuole qualche cosa, egli afferma il modo, la persona della sua volontà. Nel punto ch’egli mette una cosa come reale fuori di sé, egli dice il sapore che hanno per lui le cose, la sua coscienza, il suo sapere – quale esso anche sia. Per la sua illusione egli dice che «è» quello che «è per lui»; lo dice buono, cattivo quanto gli piace o gli dispiace.

Quando l’uomo dice «io so che questo è», egli «vuole sé stesso volente»: egli afferma nuovamente la sua persona di fronte a un elemento della realtà che non è altro che l’affermazione della sua stessa persona. Egli mette la sua persona nella sua qualunque affermazione come reale fuori di sé.

Ma se la sua persona fosse reale (avesse in sé la ragione), la cosa ch’essa afferma sarebbe – come suo correlativo – come essa stessa reale assoluta ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει, Parmenide), sarebbe per sé affermata: ma in ciò che egli ha bisogno di riaffermarla coll’affermazione del suo sapere, egli la dà come non per sé stessa reale – e la propria persona, come correlato di quella, insufficiente.

Ora con la riaffermazione della sua persona insufficiente egli presume attribuir valore a questa che essendo per lui non è. – Ma mentre l’affermazione diretta, che vive le cose – come le vive – attribuisce loro il valore relativo alla persona: le sa quanto le vuole; la riaffermazione di questa persona non aggiunge niente alla realtà. – La prima è sufficiente alla relatività di ciò che vive; la seconda che vuol metter questa relatività come