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la paura della morte, sempre lo reprimono, egli lo sentirà parlare e lo vedrà παπταίνειν a un bene che quelle non hanno il coraggio di volere. EgIi vedrà che non è fame, che non è sete, non malattia, non disgrazia quello per cui gli uomini soffrono; non cibo o bevanda, o l’apparente salute, o la presenza di ciò che è loro in mano e non è – ché non ne hanno la potenza – quello che li possa far contenti; – ma che soffre in loro l’ottuso dolore in ogni presente sempre ugualmente vuoto, nell’abbondanza o nelle privazioni; egli soffrirà nello stesso punto della propria deficienza e della loro: parlando la voce del proprio dolore egli parlerà loro la voce ad essi lontana del loro stesso dolore; come nella sua attività intensa egli sarà vicino a saziar il proprio dolore, così a loro metterà vicina una vita, per la quale essi vedranno sciogliersi la trama di ciò che li preme, di ciò che via via li distrae; si troveranno a esser stabili senza la paura dell’instabilità, si vedranno ad un tratto strappate le pareti della piccola stanza della loro miseria, e il loro piccolo lume impallidire, nel punto che fuori l’oscurità non più sarà a premerli col suo terrore, ma egli sarà apparso a loro come l’aurora d’un nuovo giorno. Liberati da ciò ch’essi credono indispensabile, dalle cure, dal calcolo delle tante piccole cose in cui la loro vita sempre si dissolve e sempre gira, da tutta la miseria della loro meschinità, essi assaporeranno nell’impossibile, nell’insopportabile la gioia d’un presente più pieno. Vedranno che